Stilista e artista, intreccia poesia e materia, ricerca e tradizione. Senza fermarsi mai. «Sono un nomade, un transumante. La cosa che mi spaventa di più? La noia»

Da un album colorato, tira fuori la foto di un bambino con indosso un abitino pied de poule, giacca e pantalone. Ha un uovo di Pasqua in mano, ma sta piangendo disperatamente. «Quel bambino sono io», dice Antonio Marras: «E questa foto esprime al meglio il mio stato d’animo. Sono così: un mix d’inquietudine e di malinconia, mi salva il mio spirito sarcastico e autoironico, a tratti divertente, direi, per pochi intimi. Mi piace cazzeggiare. Ho la capacità di complicare tutto e faccio diventare ostico ciò che non lo è. Ho la propensione al martirio, mi piace crogiolarmi nel dolore e nel tormento, non mi rendo conto degli altri interlocutori, ma li rispetto e mi piace pensare che, anche se a pochi, i miei messaggi e le cose che faccio prima o poi arrivino».

 

Uno, (mai) nessuno e centomila. È così lo stilista algherese e milanese d’adozione. Osserva, si alza, si siede di nuovo e inizia a disegnare, «perché aiuta la concentrazione». Usa come colore base il caffè raffermo che ha in ciotole e tazzine. Unito al blu e al rosso, dà forma ai personaggi simbolo del marchio di moda che porta il suo nome, una storia di vita e di vite intrecciate, splendide quanto complicate, la storia di una passione e di un sapere misto a improvvisazione, professionalità ed esperienza che lo hanno reso il grande artista - perché Marras non è solo uno stilista - che è oggi. Nella sua casa-studio ad Alghero con vista su Capo Caccia – «il nostro gigante che ci protegge, custodisce e abbraccia da lontano»- tutto parla della sua storia, un susseguirsi di giorni e di stagioni mai uguali, in cui la regola non scritta è “non fermarsi”.

 

«Ho fatto del movimento perpetuo una ragione di vita. Non ho un posto dove andare, dice la mia amica Fam, la critica d’arte Francesca Alfano Miglietti, e ha ragione. Sono un errabondo, un nomade, un transumante nell’animo e nel corpo. La destinazione non è mai l’obiettivo per me, l’arrivo non è il punto finale. Preferisco il “durante”. Mi devo sempre spostare in un caos che poi riordino. Vivo e creo in un caos ordinato di cui solo io conosco le regole. La cosa che mi ha sempre spaventato di più è la noia ed è anche per questo che faccio tante cose insieme. Quando le elenco, non ci credo neanche io e penso spesso che non ce la farò mai, ma in realtà, trovano la loro strada in un mix di tempi, luoghi e spazi ben annotati su un calendario che è la mia mappa concettuale, altrimenti non ricorderei nulla». Nel frattempo, continua a disegnare, poi smette, si alza, prende altri fogli che non sono quasi mai bianchi, risponde a un messaggio, abbraccia i suoi cani («i miei ragazzi») Tore, Gilla e Jacopo Urtis - l’ultimo arrivato ma già padrone - torna a sedersi e a parlare gesticolando, per poi disegnare e ricominciare.

 

«C’è sempre in me il bisogno e il tentativo di fare delle cose. Nasco minimalista, ma poi nel processo sporco tutto. Mi piace toccare, ricamare, disegnare, cucire, scarabocchiare, mettere sopra, poi sotto e poi ancora sopra, aggiungere e togliere, tagliare e rattoppare, imbrattare. Alcune mie collezioni si chiamano non a caso Laboratorio, perché nascono con scampoli e pezzi di stoffa recuperati qua e là che diventano poi magici. Le mie carte, i miei disegni e gli oggetti che mi circondano mi ispirano, ma poi mi chiedono pietà ed è a quel punto che capisco che sono finiti. Non ho mai un progetto scritto ma tutto è frutto di circostanze e della mia follia». Che merita sempre i suoi applausi, diceva Alda Merini, e nel caso di Marras sono davvero tanti considerato quello che ha fatto e che continua a fare.

 

Dalla sua prima collezione a Roma, nel 1987, «in un palazzone parallelepipedo sulla Tibbburtina», come dice lui imitando un accento romano - che con sua moglie Patrizia chiamarono Piano Piano Dolce Carlotta, in omaggio all’omonimo film di Robert Aldrich e al loro idolo, Bette Davis, è stato un susseguirsi di eventi. L’Alta Moda, grazie a Dominella che lo fece sfilare per la prima volta con il suo nome, fino alla sfilata al Petrovsky Passage di Mosca prima della guerra, il cortometraggio “Aspetta” girato nel borgo fantasma di Rebeccu e la sfilata tra i boschi bruciati di Santu Lussurgiu danneggiati dagli incendi, la mostra al museo Archeologico di Sassari e l’ultima a Villa Carlotta, sul Lago di Como.

 

Prima c’è stata l’enorme retrospettiva a lui dedicata alla Triennale di Milano e nel mezzo, gli 8 anni a Parigi da direttore creativo di Kenzo, «ci trattavano come divinità, ma ci siamo, mi sono salvato». Il merito? «Va alla mia famiglia. A mia moglie Patrizia, in primis, che mi è stata e mi è sempre vicina. Quello che sono lo devo a lei. Mi ha esortato e spinto a fare ogni cosa, soprattutto quelle che non avrei mai fatto. Ha una sensibilità speciale nel cogliere ciò che non riesco a vedere e percepire. È la mia più grande sostenitrice nonché la critica più feroce e spietata che ho e, purtroppo - devo ammetterlo con una certa incazzatura - ha sempre ragione lei».

 

«Patrizia sa» è una frase che Marras – che lei invece chiama sempre per nome e cognome in qualunque contesto si trovi - ripete spesso. Patrizia sa dove sta una foto, un vestito o un oggetto che lui vuole in quell’istante; Patrizia sa le date esatte di ogni cosa o evento, il nome di un autore o un musicista da chiamare, cosa si mangia, chi saranno gli ospiti del weekend. Patrizia sa, punto. Con lei ha due figli: Efisio, anche lui nella moda e da poco tornato sui banchi universitari, e Leo, che lavora nell’azienda di famiglia. «Fondamentali sono stati i miei suoceri Tonina e Ninì», precisa l’artista che crea abiti, ma anche tappeti, lampade e ceramiche speciali: «Ci hanno permesso di fare quello che abbiamo fatto. Li abbiamo sempre coinvolti in tutto facendoli però vivere, o tornare, ad Alghero, la loro e la nostra comfort zone. Tonina accompagnava i nostri figli a scuola quando non c’eravamo. Una volta, un professore chiese ad Efisio se fosse figlio di un finanziere di Fertilia e lui disse di sì. Un giorno si presenta Patrizia a scuola vestita come si veste sempre lei, come per la prima alla Scala, e a quel punto si capì che era uno scherzo. Patrizia ama vestire con le nostre creazioni in ogni circostanza. Delle volte mi fa: ma dove lo indosso questo abito? E io: Ma è ovvio: per andare al supermercato».

 

Milano è l’altra base, che li ha accolti da anni in uno degli spazi più belli: Nonostante Marras, in via Cola di Rienzo, zona Solari, esperienza multisensoriale che conquista, uno di quei posti che sanno di casa (Casa Marras), dove il disordine è l’ordine e dove la meraviglia è una continua sorpresa. Il mare sardo sarà pure lontano dai sensi, ma non dal cuore o nell’accento che vagheggia in tutta la struttura.

 

Marras porta in superficie le emozioni, ce le fa conoscere lentamente o in un sol colpo, spiazzando con personaggi di una terra desolata e splendida, portatrici e portatori di un pensiero che viene da lontano, dalle Janas, dalle zone nuragiche, dalle migrazioni, dalle transumanze che non finiscono mai. Come nell’arte di Maria Lai, sua grande maestra e amica. Trama doppia, tra giochi di tessuti e di acqua, lenzuoli e letti, altra passione di Marras. Ne ha diversi nel bel giardino di casa sua, splendidi nel loro essere arrugginiti. «Il letto attrae chiunque: è il posto dove uno nasce, dove fa l’amore e dove si muore, quello in cui si passa quasi la metà della vita. Purtroppo, dopo i 40 anni il tempo corre veloce e dopo i 50 scappa», ricorda, citando Lea Vergine: «A me, invece, non basta mai».