A 28 anni, rappresenta la quarta generazione dello storico marchio dell’eleganza napoletana. Ora, da general manager spinge l’azienda di famiglia verso lo sviluppo digitale e forme innovative di comunicazione. Per attrarre le nuove generazioni

Dopo oltre un secolo, il negozietto alla Riviera di Chiaia, una trentina di metri quadrati o poco più, foderati in boiserie, apre ancora alle 6 del mattino. Maurizio Marinella è lì ad accogliere i primi clienti che vogliono compiere un rito: comprare una cravatta di E. Marinella e farlo al mattino presto, come facevano i viaggiatori di un tempo prima di imbarcarsi al porto di Napoli, magari verso l’Inghilterra. Maurizio racconta ancora di quando Totò andava da suo padre a lezione di papillon e a qualcuno confida scherzando, ma poi neanche tanto, che il suo sogno è quello di riuscire a mettere la cravatta al Papa. Forse un giorno ci riuscirà davvero visto che Marinella ha stretto il nodo al collo di personaggi come John Fitzgerald Kennedy o Carlo III d’Inghilterra.

 

Eppure, con i tempi (e le mode) che cambiano l’impresa più difficile non è quella di avere come clienti i capi di Stato, ma i giovani under 30. A questo ci pensa e ci dovrà pensare suo figlio, Alessandro, 28 anni, grande empatia come il padre, un piglio e un approccio da manager rispettoso di tutto quello che gli sta intorno. Ha l’incarico di general manager della E. Marinella conquistato da poco. Sì, proprio conquistato, visto che è cresciuto studiando, ma anche facendo la gavetta, in negozio, in produzione, occupandosi dello sviluppo digitale dell’azienda.

 

Marinella negli ultimi anni ha avuto un’ulteriore accelerata, proprio grazie al lavoro di Alessandro, nello sviluppo dei canali commerciali e nella realizzazione di nuove linee di prodotto. «Papà si dedica al contatto con il pubblico. Io invece sono un po’ più dietro le quinte, dove sto cominciando a gestire tutti i processi: dall’approvvigionamento della merce, della seta, alle questioni doganali per la nostra stamperia in Inghilterra, fino alla produzione, alla gestione dei canali distributivi e dei canali di vendita. Quindi seguo tutto il processo, dalla a alla z».

 

Voi non avete mai fatto distribuzione, quindi i punti vendita sono quelli monomarca. Oggi. Perché fino a poco tempo fa avevate solo il negozio alla Riviera di Chiaia e, se si voleva una cravatta Marinella, si doveva andare a Napoli. Difficile crescere così. Ci vuole una forza straordinaria del marchio che forse, ai tempi attuali, potrebbe persino non bastare.
«Vero. Ma la storia del nostro marchio è fortissima e ci ha portati sin qui. E poi adesso abbiamo aperto a Roma, a Milano e stiamo per aprire a Torino, dando una copertura italiana; inoltre facciamo delle piccole distribuzioni ai negozi più eleganti e più affini ai nostri valori. Oggi poi c’è l’e-commerce, me ne occupo io e stiamo avendo risultati ottimi».

 

Però il mercato dev’essere difficile. In fondo, la cravatta è un prodotto “vecchio”, l’eleganza sta cedendo il passo al casual. E poi i giovani si mettono la cravatta?
«Intanto i ragazzi la stanno incominciando a utilizzare. E, attenzione, paradossalmente sono ancora più rigidi rispetto alle persone un po’ più avanti con l’età. Tant’è che i giovani scelgono colori classici come blu scuro, verde scuro, invece i professionisti ormai già affermati vanno sul rosso o sul giallo. Strano ma vero. Comunque stiamo affrontando la crisi della cravatta diversificando per non dipendere da un’unica categoria merceologica. Fortunatamente siamo riusciti nel corso degli anni a fare un’integrazione a monte, cioè a essere proprietari della nostra stamperia, quindi non siamo più specializzati nella produzione delle cravatte, ma nella lavorazione della seta. Stiamo applicando questo know-how a tutti gli altri prodotti, come le camicie o gli accessori, con una comunicazione molto rivolta ai giovani. Contemporaneamente stiamo cercando di rendere ancora più unico il prodotto che ci rappresenta».

 

Gucci, Valentino, Bulgari e tanti altri marchi italiani sono finiti in mani straniere. Avrete di sicuro ricevuto offerte vantaggiose anche voi. Perché non avete venduto?
«Cinque anni fa abbiamo avuto delle offerte veramente molto allettanti da gruppi francesi famosi. La scelta di non vendere è stata duplice. In primis, vendere ciò che è stato costruito dai propri antenati e che porta ancora il nome di famiglia non è mai così semplice come vendere un’azienda creata da zero che ha una storia familiare. E poi, un po’ è colpa mia… La proposta è arrivata quando stavo uscendo dall’università e sarei dovuto entrare nel mondo del lavoro. Ho sempre voluto mettermi in gioco e questo anche spinse mio padre a rifiutare l’offerta. Alla fine, lui voleva soltanto un pretesto per rifiutare. È una scelta di cui non ci siamo mai pentiti».

 

Con la scomparsa di Silvio Berlusconi avete perso un cliente importante. Si racconta che comprasse anche mille cravatte Marinella al mese per regalarle.
(Alessandro sorride e precisa) «Comprava mille cravatte per le feste natalizie, ma era un buon cliente pure durante il resto dell’anno. Nell’ultimo periodo, essendo diventato più anziano e usando meno la cravatta, chiamò personalmente mio padre dicendo che il medico gli aveva suggerito un modo per restare più giovane: non portarla per sembrare più friendly nei confronti dei giovani. Ci sono tanti aneddoti sul rapporto tra Berlusconi e Marinella. Una volta mio padre gli regalò un paio di scarpe della Stivaleria Savoia che avevamo appena comprato. Berlusconi lo ringraziò con un biglietto: “Questo è il modo più bello che lei ha trovato per farmi le scarpe”».

 

Alessandro è uomo di mondo, come si sarebbe detto una volta, ma ama tantissimo la sua città, di cui è un osservatore attento. Nel processo di crescita di Marinella ci sono tante assunzioni di giovani e di giovani napoletani in particolare, perché la famiglia ha sempre avuto un occhio di riguardo per la sua gente.

 

«Però fare impresa a Napoli è ancora tanto difficile, soprattutto per i ragazzi che vogliono restare e creare qualcosa qui. È difficile poiché non c’è un flusso di lavoro così veloce come può essere quello del Nord Italia, di Milano soprattutto, o di altre città europee. Non dimentichiamo, però, che Napoli è in Italia ed è collegata al sistema Paese, con i relativi ostacoli che impantanano la velocità del ciclo lavorativo. Per permettere alle aziende e ai giovani di lavorare e creare impresa bisogna facilitare tutta una serie di processi. Invece noi stiamo vivendo con la paura, stiamo andando a complicare sempre più l’organizzazione, quindi il flusso del lavoro. Per l’impresa che deve assumere e anche per il lavoratore che deve vivere e quindi spendere, questo ciclo sta diventando sempre più complesso. Penso che questa sia un’urgenza del Sud Italia, ma soprattutto di zone dove non arrivano grandi fondi esteri. Molto spesso nelle città del Nord Italia arrivano grandi gruppi, grandi imprese che vogliono investire. Sta cominciando una certa inversione di tendenza, ma senza dubbio Napoli è più difficile».

 

Anche per colpa della criminalità, no?
«Certo, quella non aiuta. Ma Napoli sta cambiando. È stata bersagliata per molti anni con tanti messaggi negativi, dalla spazzatura alla criminalità. Chiaramente è una città che ha tanti difetti, sia strutturali sia perché è molto complessa da amministrare. Nel corso di questi anni ha avuto uno sviluppo incredibile: si sono cominciati a girare qui film, serie tv come quella tratta dai romanzi di Elena Ferrante. Arrivano a suonare grandi cantanti. I Coldplay, per esempio, hanno dichiarato che Napoli era la città del tour italiano che più volevano andare a visitare poiché ricca di storia e di passione».

 

E poi ci ha pensato lo scudetto. In effetti, chi dice Marinella dice Napoli e chi dice Napoli, di questi tempi, dice scudetto. Grazie al tricolore nel calcio in città sono arrivati milioni di turisti e potrebbero anche aumentare gli investimenti dei grandi fondi.
«È possibile che arrivino anche i grandi investimenti, per come sta cambiando l’immagine di Napoli. Intanto sono arrivati in città fiumi di turisti da ogni parte del mondo. Questa vittoria del Napoli ha riunito tutte quelle famiglie che durante gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta sono emigrate dall’Italia per andare a creare famiglia in Sud America o chissà dove. Le prime a cogliere i frutti di questa nuova ondata di sviluppo sicuramente sono tutte le attività ricettive: dagli alberghi ai servizi, dai collegamenti alla ristorazione e anche le attività culturali come i musei o i parchi. Ma la cosa bella è che non è un turismo mordi e fuggi, è un turismo che resta. Credo che sia arrivato davvero il momento di Napoli».