Oggi Kvaratskhelia e Osimhen. Ieri Sivori, Zoff e Savoldi, fino a Higuain. Nella squadra i campioni non sono mai mancati. Ma stavolta lo scudetto serve a liberarsi da un passato ingombrante

Una volta c’era la parrucca riccia di Diego Armando Maradona, oggi la maschera di Victor Osimhen. Nei giorni dello scudetto, la protezione con cui il campione africano si difende il viso dopo il terribile colpo rimediato in un Inter-Napoli del 2021 diventa oggetto cult sulle bancarelle dei “pezzotti”, ma Luciano Spalletti si allinea filosoficamente all’eterno ritorno dell’argentino: «A Napoli hanno visto Maradona e quando hanno vinto hanno provato quanta bellezza c’è nel calcio». Diego, di nuovo lui. «Ho visto Maradona», grida ancora un popolo intero.

 

Per vincere ci vogliono i campioni, certo, ma stavolta è servito anche liberarsi da un’eredità gloriosa e ingombrante. Nel club azzurro, che finora di titoli ne ha vinto pochi, i grandi giocatori non sono mai mancati. Nell’anno 1929-30 il primissimo Napoli poteva contare su una coppia d’attacco formidabile formata da Antonio Vojak, nato a Pola, allora italiana, e Attila Sallustro, oriundo paraguaiano. Con 102 gol Vojak è stato a lungo il massimo marcatore in serie A degli azzurri, primato battuto solo nel 2021 da Dries Mertens. Nel Dopoguerra la società si aggiudicò il meglio dell’epoca: Hasse “Banco ‘e Napule” Jeppson per due stagioni, mentre Luis “’o lione” Vinicio e Bruno “o’ petisso” Pesaola legarono nome e nomignolo alla società e alla città, diventando allenatori e figure del paesaggio calcistico locale. Vinicio inaugurò il San Paolo con un gol in sforbiciata in un 2 a 1 sulla Juve, negli anni Sessanta Pesaola da tecnico convinse a giocare nel Napoli Dino Zoff, Omar Sivori e Josè Altafini. “Core ‘ngrato” dicono ancora dell’attaccante brasiliano: sette stagioni e 71 gol, numero che nella Smorfia sta per “l’ommo e merda”. Colpa della rete segnata in uno Juventus-Napoli del 1974-1975 all’88 da Altafini, nel frattempo passato ai bianconeri, che consentì alla Vecchia signora di vincere il campionato, spegnendo il sogno scudetto degli azzurri.

 

Non ci riuscì nel decennio successivo neanche Beppe Savoldi, quattro campionati e 77 reti; per il tricolore bisognerà aspettare il 1987. Oltre al genio di Diego brillarono Bruno Giordano e Andrea Carnevale. Storie diverse eppure convergenti, per i due attaccanti nati nel Lazio: il primo era reduce dallo scandalo del calcio-scommesse, il secondo dopo l’esperienza partenopea si ritroverà coinvolto in una storia di doping. Ma a Napoli andò tutto bene: fu Diego a volere Giordano, straordinaria punta in grado di risolvere diverse gare nella storica annata del primo scudetto.

 

La stagione seguente arrivò uno dei migliori bomber del periodo d’oro del calcio italiano: Antonio de Oliveira Filho Careca. La sua intesa con Maradona è stata una delle più riuscite nella storia del calcio e l’ha legato alla conquista della Coppa Uefa, nel 1989. A lui seguirà Daniel Fonseca, detentore del primato di reti fuoricasa di un giocatore azzurro, per via dei cinque gol rifilati al Valencia al Mestalla, sempre in Uefa.

 

Poi poco altro, per anni. Si ricorda con affetto Stefan Schwoch che riportò a suon di reti il Napoli in A nel 2000, ma bisogna arrivare a Cavani per ritrovare un goleador degno del passato: nel 2010 l’uruguaiano sbarcò sotto il Vesuvio e si affermò come uomo da 104 reti in tre anni. Da quel momento la società ha ritrovato il feeling con le punte di rango: Gonzalo Higuain che con 36 gol batté nel 2016 il primato di realizzazioni in serie A di Gunnar Nordhal che resisteva da 66 anni, prima di finire nello stesso calderone di Altafini a causa del passaggio alla Juve, poi Mertens che tuttora detiene il record di reti del club, 148.

 

Osimhen si è messo in scia di questa stirpe, guidando la classifica cannonieri della serie A. «Se faccio tanti gol è perché gioco vicino a uno che un giorno vincerà il Pallone d’oro», ha detto di recente il nigeriano. Quel qualcuno si chiama Khvicha Kvaratskhelia. Georgiano, 22 anni, tre stagioni fa era già nel mirino del club azzurro ma costava troppo, 30 milioni di euro. Tra gli effetti meno scontati del conflitto in Ucraina c’è stato il ribasso del cartellino dei calciatori che militavano in Russia, come Kvaratskhelia nel Rubin: le minacce riservate a lui e alla famiglia – dichiaratamente anti-Putin – lo costrinsero a riparare in patria, il suo valore precipitò a 10 milioni ed eccolo a Napoli. Bastano poche partite per capire che si tratta di un talento sopraffino: gol stupendi, finte, sterzate, tunnel e assist gli valgono presto dei soprannomi che alludono a due genius loci territoriali: Kvaravaggio e quello, ancora più ambito, di Kvaradona.

 

Galeotto è quell’“ara”: il filosofo Emanuele Severino sosteneva che dal gruppo indoeuropeo “ar” si formano le espressioni legate allo sforzo che il mortale compie per realizzare i suoi scopi. Arte, insomma, un “fare” spirituale. Kvara “fa” di brutto. Fa letteralmente sognare. E fa pensare ad altre epoche: «Sembra un poeta d’amore torturato o un appassionato studente di politica», scrive di lui il New York Times. Aria da anacoreta, le tre dita della mano unite nel segno della croce prima di entrare in campo, chioma in disordine e zero tatuaggi, calzettoni abbassati alla George Best, stile alla Gigi Meroni, è il cantore di un calcio che sta scomparendo. I tifosi del Napoli già lo immortalano sui muri della città, come fecero con l’altro, il Dio del calcio.

 

Passato e presente a rincorrersi, mentre il Napoli stravince il campionato danza ancora la gigantesca sagoma del Diez. Tuttavia la società, la squadra e l’ambiente stanno maturando: la longa mano di Diego sul Napoli, la dittatura del D10S sul calcio cittadino, che tanto ha dato ma tanto ha impedito, può finire di essere un’eredità importante e scomoda per diventare memoria identitaria. Perché è vero che Napoli e il Napoli si portano dietro la bellezza, ma ne stanno trovando una che non schiaccia. Nea-polis, la città nuova, con gli scugnizzi Kvara e Osi, ha scritto una pagina nuova. Nuova davvero.