Il Victoria & Albert riapre i battenti con una grande mostra di oggetti provenienti dall’Iran. Proprio mentre laggiù di rispolvera una collezione di quadri del Novecento occidentale. E nasce una polemica. A senso unico. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba

Una mostra di arte persiana a Londra. E una collezione di quadri del Novecento europeo a Teheran. Aprono nello stesso periodo. Ma solo una provoca polemiche. Negli Stati Uniti si piange il destino delle opere occidentali rinchiuse nel museo iraniano. Neanche fossero di nuovo gli ostaggi nell’ambasciata, commenta sarcastico Hamid Dabashi, professore di studi iraniani e letterature comparate alla Columbia.

 

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I tesori persiani sono protagonisti di una mostra spettacolare in programma dal 29 maggio al 12 settembre al Victoria & Albert. Il museo londinese riapre i battenti dopo la chiusura per la pandemia con “Epic Iran”, cinquemila anni di arte, design e cultura racchiusi in 350 oggetti provenienti da collezioni pubbliche e primate europee e americane. Nessun prestito diretto dall’Iran. Ma tanti tesori comprati nel corso dei secoli da collezionisti europei o da rifugiati: tra gli enti che prestano le opere in mostra spiccano l’Iran Heritage Foundation, fondazione di beneficenza indipendente nata in Gran Bretagna nel 1990, la Sarikhani Collection, oltre mille oggetti preziosi custoditi dalla famiglia di origine persiana nell’Oxfordshire, e la Soudavar Memorial Foundation, fondata da una coppia emigrata a Londra già prima della rivoluzione islamica del 1979.

 

Erano novant’anni che in Gran Bretagna non veniva organizzato un simile omaggio all’arte persiana. Dieci sezioni tematiche accompagneranno il visitatore tra tavolette elamite, manoscritti miniati, maioliche istoriate, opere del periodo zoroastriano e di quello islamico. Dal 1500, quando l’Iran si separò dalla maggioranza dei musulmani subbiti diventando sciita, si passa all’arte qajar, al Novecento per finire con video di Shirin Neshat e fotografie di Shirin Alibadi.

 

La maggior parte delle opere in prestito faranno pochissima strada. È conservato al British Museum il Cilindro di Ciro (cippo con iscrizione in accadico considerato una sorta di prima dichiarazione dei diritti umani), viene dall’Ermitage un piatto d’argento decorato di epoca sasanide. Uno dei curatori, John Curtis, ha detto: «I visitatori resteranno sbalorditi dalla qualità e dalla varietà di oggetti che mostrano come questo Paese avesse una civiltà avanzata e prospera al pari di quelle delle vicine Mesopotamia ed Egitto».

 

Uno sbalordimento simile aspetta a Teheran chi visiterà le sale del Museo di arte contemporanea, riaperte a gennaio dopo decenni di chiusura per disinteresse del regime degli ayatollah e 32 mesi di restauri. Il cuore del museo è la collezione messa insieme (con soldi pubblici) da Farah Diba. Proprio quella che doveva arrivare in Italia per una grande mostra, annunciata nel 2015 e poi svanita nel nulla. Nel libro “The Empress and I”, la storica dell’arte Donna Stein racconta come aiutò la moglie dello scià Reza Pahlavi a comprare opere di Chagall, Picasso, Warhol per costituire una raccolta che oggi è valutata 3 miliardi di dollari.

 

Il libro è stato recensito sul New York Times con un tono che ha fazzo imbizzarrire Dabashi: ogni volta che si parla di quella collezione, ha scritto nei media occidentali c’è sempre un senso di  “sorpresa” addolorata, con il sottinteso che «Chagall Picasso e Warhol – in persona, non solo le loro opere – sono oggi “ostaggi” a Teheran». La verità, aggiunge acidamente lo studioso, è che queste opere «sono perfettamente al sicuro e stanno benissimo dove sono, proprio come accade per le opere d’arte rubate in tutto il mondo e custodite nei musei occidentali».

 

Nessuna critica di questo genere ha accolto la mostra londinese. Eppure tra i più preziosi tesori in mostra ci sono alcune pagine del “Libro dei Re” che Dabashi piange come un tesoro devastato dagli occidentali. «Il leggendario Shahnameh è finito nelle mani di un industriale americano di nome Arthur A.Houghton Jr che ne ha impietosamente strappato le pagine vendendole poi al maggior offerente, dopo averne regalate 78 al Metropolitan nel 1972». Un solo foglio, ricorda, è stato venduto da Christie’s a Londra nel 1976 per quasi 500mila dollari.

«Nel ‘94, alcune pagine furono restituite all’Iran in cambio di un de Koonig da 20 milioni di dollari, “Woman III”. Dateci indietro le nostre opere d’arte e noi vi restituiremo le vostre – come se ci scambiassimo ostaggi». Oppure, al contrario, lasciamo le opere dove le ha portate la Storia – a parte qualche eccezione clamorosa su cui lavoreranno avvocati e diplomatici, come i tesori razziati dal colonialismo in Africa o i fregi del Partenone svenduti a un ricco inglese dagli invasori ottomani. E lasciamo che tutti, in Oriente e in Occidente, possano rimanere sorpresi scoprendo quanto sono bravi gli artisti dell’altra parte del mondo.