Un’antropologa e un fotografo. Accolti per due mesi da pastori al confine tra India e Pakistan. Una mostra a Milano racconta uno degli ultimi popoli viaggianti. Dalla newsletter de L'Espresso dedicata alla galassia araba

L’inizio della storia è quasi una folgorazione. «Ero ferma a un distributore su un’autostrada indiana, circondata dal fragore del traffico. A un tratto ho visto tremolare un puntino in lontananza. Man mano che si avvicinava ho visto che erano una decina di dromedari, ciascuno condotto da una donna, che procedevano sulla corsia d’emergenza come se fossero in mezzo al deserto. Ho deciso allora che volevo capire come questi nomadi d’India possono far convivere le loro vite e i loro ritmi con la folle velocità di un’economia tra le più effervescenti del mondo».

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La folgorazione aveva trovato terreno fertile: chi parla non è una turista qualsiasi: antropologa e scrittrice, Elena Dak ha dedicato ai nomadi di tutto il mondo decenni di viaggi e due libri (“La carovana del sale” e “Io cammino con i nomadi”, Corbaccio). «La passione per il nomadismo è nata durante i miei viaggi in Africa. I nomadi appaiono, sembrano arrivare dal nulla, passano e scompaiono di nuovo nel nulla. Ma pur rimanendo, come tutti, estasiata da questa epifania nomade, ho capito che quell’istante non permette di capire nulla della loro vita. Da qui è nata la voglia di saperne di più, tramite strumenti antropologici».

A partire dalla definizione dell’oggetto di studio: «Quando parlo di nomadi mi riferisco al pastoralismo, a popolazioni che allevano animali occupando zone svantaggiate, territori aridi o semiaridi, in cui le risorse di erba e acque sono scarse e sparpagliate, e l’unico modo per sfruttarle è quello di muoversi. Presto mi sono resa conto che l’unico modo per capire qualcosa delle vite, delle dinamiche e delle relazioni di queste popolazioni era quello di camminare insieme a loro. Da sempre l’antropologia parla di “osservazione partecipante”, ma quando ci si occupa di nomadi questo è ancora più necessario: non devi solo osservare ma soprattutto partecipare ai loro ritmi».

 

Tutto sotto il segno di un’osservazione che «rifugge da qualunque esotismo, da qualunque romanticheria o visione del nomade come esponente di una cultura “autentica”, mai modificata. Anzi: le culture nomadi, proprio perché in continuo movimento e contatto con le società stanziali, cambiano in continuazione, e oggi hanno sfide sempre più impegnative».

È iniziato con i rabari il progetto che accosta agli studi di Dak le fotografie di Bruno Zanzottera (collaboratore del “National Geographic, Focus, Figaro Mag e co-fondatore dell’agenzia Parallelozero”). «Lo conoscevo di fama, ho seguito un suo workshop di fotografia, e quando gli ho parlato del mio progetto, lui si è offerto di venire con me. Non potevo crederci: normalmente il fotografo raggiunge il luogo del reportage per pochi giorni». Invece hanno passato due mesi con i nomadi: uno nella stagione secca nel 2017, l'altro durante i monsoni nel 2018. Le immagini che raccontano questo viaggio sono in mostra fino al 3 novembre a Milano, alla Fabbrica del Vapore (“Ancora in cammino. In migrazione con i pastori Rabari Vagadiya del Kutch”).

La regione è una delle più inospitali dell’India, il Kutch, un’area del Gujarat al confine con il Pakistan. «Storicamente è una delle zone più colpite dagli scontri religiosi del 1947», racconta Dak. «Al momento della partizione i musulmani del Gujarat fuggirono in Pakistan e qui si radunarono invece gli indù del Pakistan, tra violenze e massacri. Oggi però gli scontri religiosi sono evidentemente fomentati dalla politica che sfrutta i punti di frizione tra due popoli che convivono in modo relativamente pacifico. E questo malgrado il fatto che, storicamente, si presume che i rabari siano arrivati nel Gujarat fuggendo dall’Afghanistan davanti alle varie ondate di islamizzazione che si susseguivano».

 

La convivenza con popoli non indù, per i rabari è una fortuna: da un punto di vista economico, «perché gli indù sono vegetariani e i nomadi possono vendere solo ai musulmani gli agnelli che, con la crisi del mercato della lana, sono la loro più grande fonte di guadagno». Ma anche per motivi sociali: «Gli indù disprezzano i rabari, li considerano un uno scarto della società, gente che non si è ancora evoluta rispetto all’India attuale che ha uno sviluppo economico travolgente. Non così i musulmani. Non è un caso che il nostro interprete fosse un musulmano locale: è l’unica persona che abbiamo trovato, nessun indù si è voluto abbassare a mettersi a camminare con quei “quattro selvaggi”, a collaborare con noi per lo studio dei nomadi. Tra lui e i nomadi noi non abbiamo percepito nessuna tensione religiosa. Lo studio dei rabari del resto comincia proprio con un musulmano, Abubaker Wazir, capostipite di una famosa famiglia musulmana, che accompagna l’ambasciatore italiano Francesco D’Orazi Flavoni in quella regione per fare una ricerca che poi è diventata il volume “Rabari ultimi nomadi”».

Il rispetto dei musulmani nei confronti dei popoli viaggianti si può spiegare forse con il fatto che mentre tutte le culture stanziali disprezzano chi non ha una casa stabile, il nomadismo è un mito fondativo della cultura islamica: erano nomadi le tribù che furono convertite da Maometto, sono i loro canti intorno al fuoco le radici della poesia araba, e le avventure dei beduini antichi sono alla base di serie televisive giordane amatissime soprattutto nei Paesi del Golfo.

Come la vita dei nomadi, anche il lavoro di Dak e Zanzottera è partito per nuove tappe. «Abbiamo già realizzato una nuova puntata del nostro lavoro», racconta l’antropologa. «Complici il Covid e la difficoltà di spostarsi, abbiamo deciso di seguire i nomadi tra noi. Per un anno abbiamo seguito i pastori veneti dediti al pascolo vagante dalle Dolomiti alla pianura, in provincia di Padova, Venezia, Vicenza…» Prossime tappe? «Probabilmente agli arabi chadiani, discendenti di popolazioni che giunsero dalla penisola araba prima in Egitto e poi in Sudan, e che sono tra i nomadi più numerosi del Ciad, allevatori di mucche, pecore e dromedari. Poi ci sarà la Mongolia, poi probabilmente i Nenets della Siberia…».

Un lavoro infinito anche perché il nomadismo, che già unisce «comunità molto più numerose di quanto non si creda», richiede spostamenti sempre più estesi. Complici il cambiamento climatico, la continua costruzione di nuovi quartieri e città e il “land grabbing”, la privatizzazione, da parte di privati e di aziende, di terreni che per millenni sono stati pascoli di proprietà comune: «Le condizioni sia climatiche sia ambientali della contemporaneità, che da un certo punto di vista sembrerebbero decretare la fine di questo stile di vita, in realtà costringono i pastori ad essere ancora più nomadi di prima, perché le terre sono sempre più scarse, sono privatizzate o urbanizzate. Tornando ai pastori rabari rispetto al Kutsch, se durante il monsone possono sfruttare le terre “vicino casa”, poi sono costretti a intraprendere una migrazione che ormai va dall’autunno alla fine della primavera: è un cammino molto più lungo nel tempo, e molto più ampio nello spazio di quanto non fosse quando le condizioni climatiche erano più favorevoli».

Contro il pericolo che le culture nomadi africane spariscono sono state fatte dichiarazioni molto forti, dal 2013 in poi: «I Capi di Stato hanno riconosciuto l’importanza dell’allevamento dei nomadi e si sono impegnati a garantire loro la possibilità di fare il loro lavoro. Dopo anni e anni di ostilità e di tentativi di sedentarizzazione, adesso si sta assistendo ad una lenta marcia indietro, e alla consapevolezza che i nomadi sono anche economicamente una voce importante per le economie africane. Non è così però in India: in quella economia galoppante, se i nomadi vorranno resistere dovranno faticare molto di più che non in Africa». E questo malgrado il nomadismo diventi sempre più d’attualità anche nel mondo Occidentale: dalla sfida ad integrare senza snaturarle le comunità rom nei Paesi europei, al nuovo nomadismo degli americani poveri in roulotte, raccontato con grande successo da “Nomadland”, il libro di Jessica Bruder diventato un film da Oscar grazie alla regia di Clohé Zhao.