Apple si è lanciata nel settore dominato per ora da Spotify, forte dell’enorme platea di chi possiede un iPhone o un iPad. Sarà un’altra rivoluzione, che rende felice le major ma potrebbe condannare le etichette più piccole

Vi eravate appena abituati ad ascoltare musica via Web attraverso Spotify? Attenti, perché la discsa in campo di un colosso come Apple, la multinazionale dell’iPhone che ha appena lanciato un proprio servizio di condivisione musicale su abbonamento, è destinata a cambiare per sempre un mercato nato da pochissimo ma di enorme successo.

Il business si allargherà anche in Italia, dove lo streaming ha contribuito al ritorno alla crescita di un’industria che colava a picco da oltre un decennio, ma non tutti i produttori e le case discografiche se ne gioveranno. «Molte produttori indipendenti, i cosiddetti “indie”, chiuderanno entro Natale, perché lo streaming, cambiando il modello dei ricavi della musica, determinerà una selezione naturale», dice Mark Mulligan, fondatore di Midia Research, uno dei massimi esperti mondiali del mercato musicale.

Prevede un terremoto anche Leonhard Gerd, noto guru per questi temi, di cui aveva già previsto le tendenze attuali in “The Future of Music”, un saggio del 2005: «Lo streaming darà il colpo di grazia al modello economico basato sulle vendite di canzoni. Una delle conseguenze sarà la crescita di nuovi monopoli, quelli delle grandi piattaforme digitali, che faranno da contraltare al potere delle major», dice a “l’Espresso”.

Apple farà la differenza, per il decollo dello streaming, proprio grazie al proprio peso complessivo: prevede 100 milioni di utenti paganti per il servizio (“Apple Music”), che ha lanciato a luglio. Gli abbonamenti partono da 9,99 euro al mese e danno la possibilità di accedere a 30 milioni di canzoni tramite computer, iPhone, iPad o iPod. «Apple può contare sulla grande massa critica di utenti iPhone (circa 360 milioni, nel mondo, ndr.) e su una notevole disponibilità finanziaria, con cui può sostenere il servizio e pagare gli alti costi di licenza delle major», dice Gerd.

Il gruppo californiano si sente così sicuro di sé da non prevedere nemmeno una versione gratuita (limitata) del servizio, a differenza dei principali concorrenti, come Spotify e Youtube. Che sia venuto il momento dello streaming lo dimostra anche l’interesse del social network Facebook, pronto a lanciare un proprio servizio. Così come il motore di ricerca Google, che a giugno ha potenziato il proprio servizio Play Music, aggiungendo una versione gratuita. Non gli bastava essere proprietario di Youtube, ad oggi la principale piattaforma di streaming musicale per numero di utenti.

IL WEB COPRE D’ORO I CANTANTI
Una trasformazione radicale, dunque, si sta verificando. E toccherà in pieno il mercato italiano, che per una volta non è in ritardo. Tutt’altro: lo streaming agli italiani piace moltissimo. Lo utilizza il 65 per cento degli utenti Internet, così come il 66 per cento di chi ha uno smartphone lo usa per ascoltare musica. Qui si legge la storica passione italica per l’ascolto disimpegnato e spesso gratuito, possibile con lo streaming, ma anche per l’uso del cellulare.

Tutto questo sta portando una crescente quantità di soldi a etichette e artisti, pagati da piattaforme come Spotify e Youtube, anche quando l’ascolto è gratuito. Nei primi sei mesi del 2015 i ricavi da streaming in Italia sono stati 17,2 milioni di euro, il 37 per cento in più dell’anno precedente, secondo dati pubblicati nei giorni scorsi dala Federazione dell’industria musicale italiana (Fimi). Anche grazie allo streaming, è cresciuto del 23 per cento il valore dell’intero mercato musicale italiano. È un balzo rispetto al 2014, che già aveva visto un incremento del 4 per cento del giro d’affari (a 122 milioni).

Analoga tendenza si riscontra a livello mondiale. La crisi è alle spalle per l’industria musicale, che a differenza di altre ha saputo adattarsi alla rivoluzione digitale, cavalcandola. Ma ciò che è vero per il mercato complessivo, non lo è per tutte le sue componenti.

I soggetti meno grandi faticano a giocare con le nuove regole della musica digitale. E rischiano di sparire, nel cambio radicale del modello di business che è in corso. «Per i detentori di diritti d’autore, ci vogliono 200 ascolti (o “stream”) per equiparare il valore di un album venduto», dice Mulligan. «Per le major e i grandi artisti, non ci sarà una reale differenza. Sono sempre loro a comandare il gioco, potendo contare su una grande massa critica di stream», continua l’esperto di Midia Research.

La storia della cantante Taylor Swift è emblematica. A giugno aveva annunciato che non avrebbe dato le proprie canzoni ad Apple Music, essendo contraria alla formula che prevedeva tre mesi di ascolti gratuiti. In meno di una settimana, pace fatta: Apple ha accettato di pagare i diritti agli artisti anche durante i tre mesi di prova.

«Artisti ed etichette indipendenti non hanno questo potere contrattuale. Molti spariranno dal mercato, essendo troppo dipendenti dal business delle vendite», dice Mulligan. Secondo l’analista, ci vorranno 4-5 anni per raggiungere un nuovo punto di equilibrio, favorevole anche ai non big.

E I FAN PAGANO IN ANTICIPO
Gli artisti impareranno a usare lo streaming come strumento non di ricavo ma di marketing personale. Per farsi conoscere e, soprattutto, instaurare un rapporto forte con i fan. E quindi guadagnare con concerti, merchandise ma anche in modi del tutto inediti.

Sulla piattaforma PledgeMusic, i fan pagano in anticipo (o si impegnano a pagare) per un album o una canzone a cui lavora il loro artista preferito. Su DiscipleMedia si paga un canone annuale per avere tutto di quel gruppo o cantante, compresi biglietti per concerti. E un crescente numero di artisti accetta di suonare per feste private, a prezzi che vanno da mille dollari a quasi un milione, secondo i listini delle agenzie. Le etichette “indie” dovranno invece stringere i denti, nell’attesa che il business cresca. «Sopravvivranno solo quelle che hanno gli artisti migliori. Adesso su Internet c’è troppa musica, di bassa qualità: quest’era finirà», dice Mulligan. A rischio sono anche i distributori specializzati, come Spotify, il cui business è ancora in perdita. Secondo Gerd e Mulligan, le major chiedono anticipi troppo grandi perché questo modello sia sostenibile.

«Resteranno solo le grandi piattaforme: quelli per cui la musica non è fonte di ricavi diretti, ma serve a fare soldi con altre cose. Apple con i cellulari; Google e Facebook con la pubblicità», dice Mulligan. Può valere anche per Telecom Italia, il cui TimMusic è il principale servizio italiano di streaming a pagamento, con 200 milioni di stream nei primi sei mesi del 2015, in crescita del 60 per cento. «Con il passaggio a un modello basato su ascolti invece che sulle vendite, sarà il trionfo di due monopoli diversi: le major e le piattaforme digitali», dice Gerd. Hanno bisogno le prime delle seconde, ma si affronteranno a muso duro per imporre le regole del gioco.

Un po’ come avviene in altri ambiti, per esempio gli editori di libri e Amazon. La vera incognita è quale delle due categorie regnerà sulla musica fra cinque anni: ancora le major o piuttosto le multinazionali digitali?