Con il boom delle piattaforme è cambiato il modo di vivere lo spazio e il tempo. In maniera irreversibile

Mentre il mondo dello spettacolo si mobilita per riaprire cinema e teatri al cento per cento, come se il problema fosse davvero quello, l’emorragia del pubblico verso il consumo domestico e in particolare via streaming prosegue implacabile. Ma la sensazione è che non si tratti solo di preferire il divano alla sala, o le serie ai film. Il boom delle piattaforme, e del modo in cui promuovono la loro offerta, ha a che vedere con qualcosa di più profondo. Ovvero con un modo inedito (e abbastanza irreversibile temiamo, almeno sui grandi numeri) di vivere lo spazio e il tempo.


Ciò che “vendono” davvero Netflix & C., da ben prima che la pandemia intervenisse a esasperare la tendenza, è l’illusione di un eterno presente. Uno spazio aperto a proposte virtualmente infinite e soprattutto sempre nuove, per giunta a nostra disposizione in qualsiasi momento. In altre parole: un (finto) paradiso. È la fine dei vecchi palinsesti tv, della prima e della seconda serata, delle filosofie e delle identità di rete. La piattaforma deve rendere il più sottile possibile il diaframma che la separa dal consumatore. Identificare i suoi gusti, quindi confermarli e gratificarli con la (presunta) precisione degli algoritmi. Ma non basta. Occorre che la merce sia sempre fresca. Per questo i loro menu quasi sempre sfumano o cancellano con cura ogni traccia di passato dai titoli proposti. Se il bene supremo è la novità, bisogna che quei titoli siano in certo modo emendati dalla loro storia, anche a costo di minimizzare la grandezza degli autori o di tacere i passaggi ai festival e in generale tutto ciò grazie a cui un film costruisce, nel tempo, la propria identità.


È questo, e non solo lo svuotamento delle sale, dunque la fine di un modo consapevole e collettivo di andare al cinema, a inquietare. Abolendo il luogo fisico deputato alla visione dei film, si rendono evanescenti anche i mille fili che legano quei film alle nostre vite e alla nostra (o alla loro) epoca.

L’assenza pressoché sistematica non diciamo di corredi critici ma di quel minimo di informazione che aiuterebbe lo spettatore a scegliere e capire è la conseguenza naturale di questo atteggiamento. Ma costituisce anche un passo ulteriore verso la disintermediazione tipica dell’era digitale.

Non mancano segnali di novità, soprattutto nella serialità, con cui ad esempio Netflix sembra voler avvicinarsi a storie e temi più “locali”. La prima impressione però è che il controllo sul prodotto sarà ferreo e che anche queste storie, per adattarsi a un pubblico globalizzato, dovranno rinunciare ai loro connotati più specifici. A riprova del fatto che la grande trasformazione in corso non riguarda solo il modo in cui guardiamo i film, ma quello in cui verranno concepiti e prodotti. Con conseguenze pesanti soprattutto per l’anello più debole. Il cinema d’autore. Che sarà costretto a sopravvivere in riserve indiane come i festival, le sale specializzate, o le piattaforme come Mubi, che al cinema d’autore di oggi e di ieri è interamente dedicata. E ha visto a sua volta triplicarsi gli abbonati nell’ultimo anno fino a toccare quota 12 milioni nel mondo.

Altra tendenza intensificata dalla pandemia è la polarizzazione del mercato. Basta guardare i primi dati della stagione per rendersi conto che a dividersi il grosso degli incassi è un numero sempre più ristretto di titoli, in tutti i generi e tutte le categorie. Effetto congiunto della concorrenza in streaming e della disinformazione di questi anni. Disorientato dalla sovrabbondanza dell’offerta e dal chiasso promozionale (che sovrasta la vera informazione), lo spettatore finisce per concentrarsi su pochi titoli ben identificabili, si tratti di “Dune” o del magnifico “Qui rido io” di Martone, lanciato da Venezia. Lasciando per strada film magari non meno degni (un titolo per tutti: “Il collezionista di carte” di Paul Schrader, scoperto sempre al Lido). Strozzando il mercato delle sale si riduce ulteriormente la possibilità di circolazione di un certo tipo di opere, impoverendo il gusto degli spettatori. Difendere i cinema significa anche difendere l’ampiezza e la pluralità del gusto.