Abbiamo le case stracolme di oggetti superflui e inutilizzati. È così che nascono iniziative politiche e commerciali, movimenti e siti che cercano di dare una risposta a chi si interroga su cosa farsene
Case affollate di oggetti, armadi pieni, ripostigli stracolmi, cantine intasate. Viviamo circondati di cose che non utilizziamo, siamo sopraffatti dai doppioni, immersi in un'abbondanza che soffoca. Mentre il mondo va a passi veloci verso una cultura dell'immateriale, viviamo in case superaffollate, trascinandoci dietro una montagna di oggetti di cui spesso non sappiamo che fare. Vestiti, elettrodomestici, mobili, quadri, cellulari, borse, scarpe e macchine del caffè, vecchi ricordi e regali mai scartati, "roba" che non si sa dove mettere, a chi dare, come riciclare.
Esistono migliaia di tonnellate di beni post consumo accumulati nell'era delle vacche grasse e dell'edonismo e ora ci si interroga su cosa farsene. È così che nascono iniziative politiche e commerciali, movimenti e siti che cercano di dare una risposta: alcune nella direzione della conservazione razionale e intelligente, altre del riciclo, del baratto, o di una rottamazione senza costi per l'ambiente.
Gli anglosassoni lo chiamano "decluttering", liberarsi delle cose. Una ricerca realizzata nel 2012 da Tns per e-Bay, in otto Paesi europei, rivela che le famiglie posseggono in media 50 oggetti inutilizzati. Gli italiani sarebbero i più conservatori, con più di 80 oggetti dimenticati tra armadi e cantine. Negli armadi delle donne sarebbero le borse l'accessorio più presente e più inutilizzato, con circa 4 borse dimenticate. Non sono numeri in libertà, ma tentativi di classificare un accumulo sfrontato che pone problemi di recupero e riciclo. E modi per calcolare il valore di un tesoro nascosto. Per capire lo spreco basta quantificare i vestiti che giacciono negli armadi. Secondo il Conau, Consorzio nazionale abiti e accessori usati, ogni anno in Europa si acquistano 15-20 chili di abiti per abitante, 14-16 in Italia: vestiti che si accumulano e spesso non si mettono. Per capire quanti sono gli abiti che non usiamo, l'ente inglese Wrap ha calcolato che gli indumenti custoditi nelle case anglosassoni costituiscono uno spreco pari a trenta miliardi di sterline: circa il 30 per cento dell'intero guardaroba non viene indossato almeno per un anno.
Ma questa tendenza allo spreco è al capolinea. C'è una inversione di tendenza. Il rapporto con gli oggetti è sempre più ambivalente e le cose accumulate sempre più spesso prendono direzioni diverse.
«Sta crescendo il numero delle persone che vogliono vendere le cose che hanno in casa, sia per motivi economici che di spazio», spiega Gianfranco Bongiovanni, segretario di Rete Onu, network che riunisce gli operatori dell'usato. «Nel 2011 è cresciuto del 10-15 per cento il numero di negozi che vendono per conto terzi nelle reti del franchising; in alcuni casi c'è stata un'impennata tale da creare una microbolla. Catene come il Mercatino, Mercatopoli, il Bazaar vedono affluire sempre più persone che portano oggetti in conto vendita, così come segnalano la crescita dei clienti che, caduto ogni pregiudizio, accedono all'usato: un mercato che diventa non solo luogo di vendita ma anche di relazioni. L'usato si va diversificando, specializzando: dai mercatini ai negozi vintage ai rigattieri e agli ambulanti, fino ai Rom che da soli permettono il riutilizzo di 10 milioni di oggetti l'anno». Secondo la Camera di commercio di Milano, nel 2011 i venditori di abiti usati in Italia sono aumentati del 5,6 per cento. «Stanno nascendo nuovi modi di fare usato, perché le persone tendono a liberarsi con più facilità di ciò che hanno. Più merce in circolazione e più compratori perché ci sono forme di usato più pulito, più vendibile di un tempo, in negozi che possono benissimo competere con quelli del nuovo. Un cambiamento dovuto sia alla crisi economica che a una trasformazione della coscienza ambientale», spiega Fabio Marzella, sociologo dei consumi. «Aprono nuove tipologie di negozi che si collocano tra usato tradizionale e vintage, perché le persone non hanno più voglia di buttare via le cose, c'è una nuova voglia di risparmio».
Declina la cultura dell'usa e getta, sulla spinta della crisi economica e di rivoluzioni culturali. «Sta succedendo qualcosa di simile a quello che è accaduto nei primi anni Novanta», spiega il sociologo dei consumi Vanni Codeluppi, «quando in coincidenza di una crisi economica, ma soprattutto per esigenze di liberazione dagli "eccessi" estetici degli anni Ottanta, si è passati a una fase di minimalismo. Questo è avvenuto nell'arredamento e nel design, ma anche nella moda, vedi certe creazioni di Gucci di Tom Ford o Prada. All'epoca si è trattato di una rivoluzione estetica, quella di oggi è più sostanziale, sembra riguardare anche i valori: si cominciano, cioè, a rifiutare gli eccessi del consumismo. Oltre al movimento ecologista e a quello per la decrescita, si vanno affermando tanti piccoli micromovimenti sociali come "100 Thing Challenge". Il fenomeno riguarda piccole élite che operano insieme, e i più giovani».
Una tendenza rafforzata da Internet. «Da un lato tramite la riduzione del peso e della forma delle apparecchiature ci si abitua al rapporto con l'immaterialità», dice Codeluppi: «Dall'altro, tramite la digitalizzazione si riduce la necessità di un impatto fisico con gli oggetti. Internet rende più superficiale e infedele il nostro rapporto con quello che ci circonda, mentre la diffusione del "cloud" ci abitua a sentirci liberi anche dalle cose che ci interessano. Si indebolisce il senso della proprietà e dell'attaccamento alle cose». Non solo. Secondo il sociologo, in un'epoca di disordine sociale, si cerca di mettere ordine almeno nel proprio spazio.
Nel tentativo di recuperarne nascono movimenti, scuole di pensiero. Nei Paesi anglosassoni, il "decluttering", che significa "togliere quello che ingombra", è qualcosa che sta tra il movimento sociale e le tecniche di sopravvivenza contro la tirannia degli oggetti, tra la filosofia e la guida pratica a fare ordine. Si possono trovare utili suggerimenti sulle tecniche di decluttering in "Space Clearing", di Lilian Too, tradotto in italiano dall'editore "Il punto d'incontro", o nel blog "Be more with less" di Courtney Carver. Esistono corsi organizzati da Spaceclearing.it, tenuti dalla guru italiana Lucia Larese che da anni insegna a fare spazio nella casa e nella mente. «Eliminando con consapevolezza il superfluo impariamo a mettere a fuoco le cose importanti della nostra vita», scrive Larese. «Spaceclearing letteralmente è "purificazione dello spazio". Praticarlo quotidianamente vuol dire imparare a fare posto al nuovo, in casa e in ufficio, ma anche a nuovi aspetti della personalità e a possibili sorprese».
Liberarsi del superfluo: per farlo, c'è anche chi sceglie il baratto. "Swap party" li chiamano negli Usa, incontri dove ci si scambia quello che non si vuole più. Sul sito swapclub.it ci si può registrare e scambiare abiti; stessa finalità ha atelierdelriciclo.org che propone «un edonismo sostenibile per liberarci dalla necessità di spendere». Il sito organizza swap party mensili.
Ma la roba che affolla le case non sempre torna a una seconda vita. C'è anche quella che finisce nel cassonetto. Aumentano nelle città quelli gialli, dove gettare i vestiti da riciclare. Quest'anno è stato firmato un accordo tra l'Anci, l'associazione che riunisce i Comuni, e il Conau per incentivare il riciclo degli abiti smessi. «Dal 2006 al 2010 la raccolta di abiti usati è raddoppiata e ha continuato a crescere», spiega Edoardo Amerini, presidente del Conau: «È dimostrato che con la raccolta di un chilo di stoffa si riduce l'emissione di CO2, il consumo di acqua, l'uso di fertilizzanti e pesticidi. Se in Italia si riuscisse a passare dalle attuali 80 tonnellate di abiti raccolti a 240, si risparmierebbero 36 milioni di euro sullo smaltimento di rifiuti».
C'è anche, però, chi non vuole disfarsi di ciò che ha. «Gli italiani sono attaccati alle cose. Spesso preferiscono pagare per un piccolo box dove conservare ciò che hanno, piuttosto che buttare», spiega Chiara Conigli di Easybox, marchio di box in affitto, a partire da 2 metri, sparsi in varie città. «È il self storage, fenomeno nuovo in Italia ma diffuso all'estero. È nato per chi ha esigenze transitorie - una ristrutturazione, un trasloco - ma molti preferiscono tenersi uno spazio senza scadenze. Negli ultimi anni sono aumentati i privati. Abbiamo uno zoccolo duro formato dal 20 per cento di clienti che non vogliono disfarsi di ciò che hanno. Probabilmente avere un luogo dove mettere le cose li aiuta ad avere stabilità. Così arrivano con il comò della nonna o gli arnesi da lavoro, e ogni tanto vengono a vederli». Gli esperti hanno dato un nome alla sindrome di non buttare via niente: "disposofobia". E due clinici americani, Randy O. Frost e Gail Steketee, hanno scritto un libro su chi è affetto dal bisogno di accumulo: "Tengo tutto" (Erickson), storie di persone che hanno perso anche la casa e la famiglia per l'incapacità di tenere sotto controllo la tendenza ad ammassare.
Sono gli irriducibili del possesso: per loro non c'è spaceclearing o baratto che tenga. Forse anche consapevoli che il vento è cambiato e tante cose non sarà più possibile comprarle ancora.