Il governo va in soccorso di enti diventati espressione di potentati locali autoreferenziali, in grado di influenzare pesantemente il mondo politico e finanziario in un rapporto di forza rovesciato

Il bonus previsto nella Finanziaria 2023 a favore delle Fondazioni bancarie che si faranno carico di incorporare quelle che si sono irrimediabilmente impoverite fino ad avere meno di 50 milioni di patrimonio, è l’ennesimo intervento che governo e Parlamento di turno fanno quando la potentissima lobby “chiama”.

 

Le fondazioni bancarie rappresentano una fenomenologia rilevante ma il loro ruolo è molto ambiguo e si traduce nella difficoltà di individuare con precisione la loro missione sociale e la trasparenza delle loro gestioni. Anche questa volta la politica, invece di verificare cause e responsabilità dell’impoverimento e delle dissipazioni, corre a sostenere il sistema con un credito di imposta pari al 75 per cento delle erogazioni in denaro a beneficio dei territori di operatività delle fondazioni incorporate in gravi difficoltà.

 

Questi enti sono detti di origine bancaria perché con la legge Amato del 1990 conferirono le aziende bancarie pubbliche di cui erano titolari in società per azioni, conservandone il controllo strategico. La legge Ciampi del 1999 ne inibì il ruolo di holding bancarie, rendendole persone giuridiche private grant-making, che utilizzano cioè i frutti del proprio patrimonio per erogare risorse a favore di progetti gestiti da terzi. La riforma Tremonti del 2001, dall’altro lato, rese ancora più invasiva l’ingerenza del potere pubblico a discapito della veste formale.

 

E infatti la lobby protegge e cura, come fosse un totem, questa veste giuridica formale di “enti privati” i cui organi sono però prevalentemente nominati da soggetti pubblici ed il cui enorme patrimonio deriva dal risparmio pubblico, a guisa di un piccolo fondo sovrano. Peraltro, nonostante i divieti della legge Ciampi, permane ancora oggi quell’abbraccio mortale con le banche conferitarie che ha determinato in molti casi il loro drastico impoverimento.

 

Si tratta di un ircocervo sfuggito via via finanche all’originario disegno del legislatore, divenendo in molti casi espressione di potentati locali autoreferenziali in grado di influenzare pesantemente il mondo politico e finanziario. E basta guardare alla longevità formidabile di molti amministratori per comprenderne appieno la capacità di ribaltare lo stesso rapporto di forza con la politica. Recuperando l’etimo della parola “politica”, è evidente che ci trova dinanzi a veri e propri soggetti pubblici che, grazie alla veste privatistica, sfuggono a qualsiasi controllo democratico. Le fondazioni bancarie continuano insomma a catalizzare l’attenzione in quanto risultano centri di potere per i patrimoni milionari di cui dispongono, nonché interlocutori privilegiati del sistema bancario grazie ai meccanismi di nomina dei vertici aziendali.

 

Pur volendo ammettere la logica del supporto ai territori, tutto dovrebbe avvenire invece secondo regole di trasparenza, efficienza, legalità, e soprattutto in un regime di controlli, vista la natura delle risorse e l’origine delle nomine degli amministratori.

 

Eppure non appena qualcuno giustamente osserva, ad esempio, la naturale soggezione al controllo della Corte dei Conti, si levano enormi polemiche e dibattiti, agitatati da fini legulei, per affermarne la natura del tutto privatistica e quindi fuori dall’ambito del controllo dei giudici contabili. Laddove in un sistema caratterizzato dalla moltiplicazione delle figure incaricate della cura di interessi generali, la questione non è discettare sulla natura giuridica ma su quali norme “orizzontalmente” riferite alle amministrazioni e agli enti pubblici vadano ad esse applicate, sulla base delle finalità perseguite e degli interessi tutelati. Ed è evidente che la stretta affinità con enti come le fondazioni “previdenziali” o quelle “lirico-sinfoniche”, pacificamente soggette ai detti controlli, dovrebbe imporne il medesimo trattamento senza neppure bisogno di una apposita legge. D’altra parte queste fondazioni se sono così utili e ben gestite quale preoccupazione hanno ad assoggettarsi a forme di controllo cosiddetto di gestione?

 

Investire i lauti profitti delle banche in opere a sostegno delle comunità può sembrare a prima vista un progetto meritorio nel quale le fondazioni assumono un ruolo di moderno mecenate. Ma, tolto il velo dell’apparenza, la situazione è quella descritta.

 

Peraltro, l’obbligo per le fondazioni di investire il 90% dei proventi nella regione di appartenenza privilegia il Nord rispetto al Sud del Paese, contribuendo a enfatizzare una differenza di disponibilità che ha ormai ampiamente superato il livello di guardia. Inoltre, se le sedi delle grandi fondazioni e delle relative grandi banche sono concentrate al Nord, lo stesso non si può dire dei loro correntisti o in generale della loro attività operativa.

 

La verità è che la lobby delle fondazioni è la più potente di tutte e vive nell’ombra senza che il cittadino comune sappia neppure di cosa parliamo: altro che concessionari di autostrade, spiagge cave o torbiere. Di fatto, le fondazioni bancarie, pur nell’originario divieto, non hanno mai cessato di occuparsi delle attività bancarie con il ruolo determinante nella nomina degli amministratori. E nel contempo dispongono di enormi risorse da spargere a pioggia liberamente e senza alcuna evidenza pubblica sui territori al di fuori di ogni regola di contabilità pubblica. Ed ogni volta che qualcuno propone regole si alzano polveroni che neppure all’epoca della glaciazione si sono mai visti.