Crisi e affari ?discutibili hanno indebolito il patrimonio degli enti che ora hanno meno risorse in cassa da distribuire sul territorio. E adesso devono anche affrontare il buco del fondo Atlante, voluto da Renzi

Politico democristiano, presidente della Regione Lombardia, senatore della Repubblica (la Prima), e poi da vent’anni in sella a Cariplo, la più grande e potente delle fondazioni bancarie, Giuseppe Guzzetti sa bene come addomesticare i fatti, anche i più controversi, avvolgendoli in un doppio strato di parole. E così, se gli chiedete di quel mezzo miliardo di euro versato dal sistema delle fondazioni al fondo Atlante (100 milioni la sola Cariplo) e poi inghiottito dal gran falò delle Popolari venete (Vicenza e Veneto Banca), Guzzetti, classe 1934, si smarca agilmente argomentando che la «situazione resta fluida».

Come dire che è ancora presto per tirare le somme e mettere a bilancio le perdite di un’operazione partita con le migliori intenzioni, cioè il salvataggio di due istituti sull’orlo del fallimento, per poi finire nelle sabbie mobili di un disastro che strada facendo si è rivelato ben più pesante di quanto era sembrato da principio. I 3,5 miliardi raccolti e investiti da Atlante con il contributo delle fondazioni insieme a grandi banche e assicurazioni si sono rivelati insufficienti per tappare le falle nei conti di Popolare Vicenza e Veneto Banca, che ora rischiano la liquidazione secondo lo schema del cosiddetto “bail in”.

Partita chiusa, quindi. Difficile, per non dire impossibile, che quei 3,5 miliardi vengano in qualche modo recuperati. E infatti, a differenza della Cariplo di Guzzetti, altri grandi enti bancari come le torinesi Crt e Compagnia di SanPaolo, hanno già messo a perdita nei bilanci 2016 una parte del loro investimento.

Tesoro miliardario
I guai di Atlante spargono sale su una ferita aperta da tempo. Custode di un tesoro che vale oltre 40 miliardi, il sistema delle fondazioni di origine bancaria, 88 in totale, nate oltre un quarto di secolo fa dalla privatizzazione delle casse di risparmio, ha subìto colpi pesanti negli ultimi anni per effetto della crisi del credito. A Siena e a Genova il crollo di Mps e Carige ha messo al tappeto i due enti, che ai bei tempi spadroneggiavano nei due istituti locali. E questi sono i casi più eclatanti. Ma centinaia di milioni sono andati in fumo anche a Ferrara e a Macerata, Jesi, Pesaro. Sempre lo stesso film: la banca crolla sotto il peso di gestioni clientelari (prestiti agli amici e agli amici degli amici) e le fondazioni, che in teoria avrebbero dovuto vigilare sulle proprie controllate, si trovano di colpo assediate dalle perdite. Senza arrivare a questi casi estremi, il forte ribasso nelle quotazioni e la diminuzione, a volte l’azzeramento, dei dividendi ha messo in difficoltà anche gli enti azionisti dei più importanti istituti nazionali.


Sui conti della Cassa di Verona e della torinese Crt hanno pesato i guai di Unicredit, di cui sono socie anche la Cassamarca di Treviso e la Cassa di Trieste. Mentre gli alti e bassi di Intesa hanno lasciato il segno nei bilanci delle fondazioni azioniste, Compagnia di SanPaolo e Cariplo, le più importanti, insieme alla Cassa di Firenze, alla bolognese Carisbo e alla Cassa di Padova e Rovigo (Cariparo).

L’Espresso ha messo in fila perdite e ribassi e alla fine si scopre che la crisi del credito è costata più di 6 miliardi di euro alle grandi fondazioni. I numeri pubblicati in queste pagine si riferiscono al patrimonio dei dieci enti di maggiori dimensioni, quelli che, da soli, valgono i tre quarti del sistema.

Ebbene, dal 2010 all’anno scorso, a cui si riferiscono i bilanci esaminati, i patrimoni delle top ten si sono ridotti da 31,3 a 24,3 miliardi. Un calo del 20 per cento che in parte, ma solo in parte, si spiega con il crollo del Monte dei Paschi. L’omonima fondazione è stata travolta dalla crisi di quella che era la terza banca italiana.

Risultato: il patrimonio dell’ente senese, che nel 2010 valeva 5,4 miliardi, nell’ultimo bilancio pesa per soli 451 milioni. I numeri fotografano anche un’altra realtà, quella delle cosiddette erogazioni, cioè i contributi che le fondazioni sono per legge tenute a versare per scopi di pubblica utilità. Miliardi di euro che ogni anno vanno a sostenere iniziative di volontariato, istituzioni culturali, associazioni filantropiche di ogni sorta. Tra il 2010 e il 2015, ultimo dato disponibile, la torta si è ridotta di un quarto: da 1,3 miliardi a 936 milioni.

Gli enti più solidi hanno scelto di tenere alta l’asticella delle donazioni per non far mancare preziose risorse al territorio. È il caso di Cariplo, che pur avendo chiuso gli ultimi due esercizi con un disavanzo di bilancio (38 milioni nel 2015 e 31 milioni nel 2016), l’anno scorso ha aumentato le proprie erogazioni a 179 milioni, contro i 158 milioni registrati nei 12 mesi precedenti. L’ente presieduto da Guzzetti ha però dovuto attingere a piene mani a un fondo appositamente accantonato a bilancio, che si è così ridotto da 254 a 111 milioni.

Poltrone girevoli
D’altronde non c’è scelta. Se calano i dividendi delle banche partecipate diventa molto complicato, a volte impossibile, mantenere invariato il flusso delle donazioni. Il problema sarebbe stato risolto, o quantomeno limitato nei suoi effetti, se le fondazioni avessero diversificato di più i loro investimenti. Invece negli anni scorsi quasi tutte hanno fatto la scelta opposta. Gli istituti di credito garantiscono potere, oltre ai dividendi. E così gli enti azionisti si sono tenuti ben stretti le loro quote.



Adesso, però, un protocollo siglato nel 2015 tra il ministero dell’Economia e l’Acri, l’associazione di categoria delle fondazioni, fissa paletti ben precisi. Nessuna partecipazione può assorbire oltre un terzo dell’attivo di bilancio. Le quote che superano questo limite, e quindi, eventualmente, anche i titoli delle banche, devono essere cedute entro tre anni, quindi prima della fine del 2018. La scadenza è prorogata al 2020 se gli istituti partecipati non sono quotati in Borsa.

Non c’è tempo da perdere, quindi. E infatti alcune fondazioni hanno già cominciato a vendere, a volte rassegnandosi a pesanti perdite. È il caso di Cariverona, che nel 2016 ha bruciato quasi 210 milioni di euro per effetto delle perdite sulla cessione di azioni Unicredit. L’accordo tra Acri e governo è stato salutato da molti osservatori come un punto di svolta. E in effetti, per la prima volta, il protocollo stabilisce importanti norme di trasparenza, per esempio a proposito dei bilanci e della pubblicazione dei programmi d’investimento degli enti.
Le nuove norme puntano anche a dare un taglio alle proroghe infinite degli incarichi, con presidenti e amministratori che riescono a salvare la poltrona anche per decenni. La durata massima del mandato è stata fissata in quattro anni, rinnovabile una sola volta.

La regola, che innescherà una girandola di nuove nomine, offre però ampi margini di manovra. E qualcuno ne ha subito approfittato. Dino De Poli al comando di Cassamarca da 27 anni è stato riconfermato presidente nel dicembre 2016. Nel 2020, al termine del quadriennio, De Poli avrà raggiunto la veneranda età di 91 anni.
L’intesa raggiunta nell’aprile 2015 tra il ministro Pier Carlo Padoan e Guzzetti, nel suo ruolo di presidente di Acri, precede di un anno l’avventura di Atlante. Nei piani del governo di Matteo Renzi, il fondo gestito dall’economista Alessandro Penati avrebbe dovuto salvare Popolare Vicenza e Veneto Banca e allo stesso tempo risolvere il problema dei crediti a rischio di istituti in crisi come il Monte dei Paschi.

Quindi, di fatto, lo stesso governo che con il protocollo del 2015 aveva ristretto lo spazio di manovra delle fondazioni, ribadendo il loro ruolo di sostegno al territorio e alla società civile, meno di un anno dopo è tornato a bussare alla porta delle stesse fondazioni. Questa volta per coinvolgerle nella più classica delle operazioni di sistema, un’operazione, come si è capito dopo, dai rischi altissimi. Fatte le debite proporzioni, si muove sugli stessi binari anche un affare annunciato di recente, che coinvolge la Cassa di Trieste.

Questa volta si arriva addirittura in Francia, dove la fondazione giuliana è stata chiamata a dar man forte alla Fincantieri, azienda a controllo pubblico, nell’acquisizione di un gruppo concorrente, la Stx France. Parigi si è messa di traverso per bloccare un’operazione che consegnerebbe a una società straniera il più importante cantiere navale del Paese. Per risolvere l’impasse, Fincantieri si era impegnata a restare sotto la soglia del 51 per cento del capitale di Stx, girando alla Cassa di Trieste una quota intorno al 7 per cento per un valore di poco inferiore ai 10 milioni.

Nel frattempo però in Francia è stato eletto il nuovo presidente Emmanuel Macron che, con buona pace dei dichiarati ideali europeisti, pare deciso a ridiscutere l’intesa faticosamente raggiunta. Si vedrà. Intanto l’eventuale intervento della fondazione triestina sembra rispondere più che altro a una logica territoriale. A Monfalcone infatti, a poca distanza dalla città di San Giusto, il gruppo cantieristico pubblico dà lavoro a 1.500 dipendenti, a cui vanno aggiunti 5 mila occupati nell’indotto. In qualche modo, quindi, il sostegno alla crescita di Fincantieri potrebbe avere ricadute positive anche in riva dell’Adriatico.

Arte che passione
Al vertice delle fondazioni c’è anche chi punta sull’arte per rafforzare il patrimonio. È la strada scelta dalla Cassa di Firenze (Carifi), che nel tempo ha messo insieme una collezione del valore dichiarato di 47 milioni.

Una pinacoteca degna dei Medici, che però, di recente, ha subìto un improvviso, quanto rilevante, deprezzamento. Un nuovo censimento dei quadri ha portato infatti a una svalutazione complessiva di 13 milioni di euro: come dire che un quarto di quel tesoro è di colpo evaporato. Il «Corpus di dipinti, disegni e incisioni» dell’artista Pietro Annigoni, ad esempio, acquistato nel 2007 e messo in vendita dai figli dell’artista per cinque milioni di euro, risulta oggi valerne poco più di due. Alcune tele di un suo allievo, Luciano Guarnieri, cedute dagli eredi per 4,5 milioni nel 2010, sono state iscritte nel bilancio 2015 per un milione e trecentomila euro. Sui registri delle vendite di ArtPrice, i dipinti di Guarnieri si muovono in media a un prezzo inferiore ai mille euro. Valori quindi a dir poco distanti da quelli indicati nei conti della fondazione toscana.


L’intera collezione di quadri (che porta in dote anche opere di Giotto, Vasari, Fattori), assicurano fonti dell’ente fiorentino, era stata sottoposta a due perizie di Christie’s, nel 2009 e nel 2012. E la svalutazione è dovuta solo al «mutamento della congiuntura». L’operazione di riordino, aggiungono, «è stata avviata quando si è deciso di presentare al pubblico la collezione.

A livello nazionale l’arte e la cultura assorbono il 30 per cento del totale delle erogazioni concesse dalle fondazioni. L’istituto nato dalla Cassa di risparmio di Bologna dona ai propri musei - che gestisce attraverso una società, Genus Bononiae - più della metà dei fondi a disposizione per la solidarietà: il 54,6 per cento degli interventi. Al vertice di Genus Bononiae troviamo Fabio Roversi Monaco, a lungo presidente della fondazione felsinea. Per mantenere i palazzi dell’ente e organizzarvi mostre - una delle principali, l’anno scorso, dedicata alla street art, ha registrato 32mila visitatori e moltissime polemiche, per i murales strappati dai muri ed esposti nelle sale - Genus Bononiae ha chiuso anche l’ultimo bilancio in perdita per quattro milioni e mezzo di euro.

Sostenere l’arte, in un momento di ristrettezze pubbliche, è fondamentale. La domanda resta sempre: quale arte? Fra le iniziative in proprio la Fondazione ha speso 441 mila euro nel 2015 per l’acquisto di dipinti, fra cui due ritratti comprati all’asta a Milano, a cui vanno aggiunti 36 mila euro per pagare i consulenti che hanno valutato le opere. Per aggiudicarsi quei quadri Carisbo ha quindi speso più di quanto ha messo in bilancio alla voce “sostegno dei bisognosi” inserita tra le iniziative in proprio. Questi ultimi contributi non superano infatti i 308 mila euro.

Immobiliare Treviso
Sono i consigli d’amministrazione degli enti a scegliere le priorità per la loro comunità di riferimento. Queste possono essere l’housing sociale e le case popolari, com’era ad esempio per la fondazione Mps, che prima dello scandalo a Siena distribuiva 34 milioni di euro in alloggi convenzionati (era il 2013, oggi ne dà due). Oppure può essere un altro tipo di housing. A Treviso la fondazione Cassamarca ha puntato tutto sulla “Cittadella delle istituzioni”, un’area immobiliare costruita ex novo per ospitare uffici, appartamenti che «dialogano con la modernità senza mai perdere di vista il comfort», bar e negozi.

Il maxi-investimento immobiliare è gestito da Appiani srl, che si è indebitata con le banche per 155 milioni di euro. Alcune istituzioni si sono in effetti trasferite nella “Cittadella”, ma i proventi per la fondazione sono stati di gran lunga inferiori al previsto. Questura e Polizia pagano, si legge, («puntuali») dal 2010 un affitto «non ancora approvato ufficialmente» dal ministero dell’Interno. Poi ci sono i canoni versati da Agenzia delle entrate e Guardia di finanza, ridotti dalla spending review, mentre la Prefettura non s’è trasferita, e la Camera di Commercio si è rifiutata di spostare la sede.

Appiani ha chiuso il bilancio 2015, ultimo disponibile, con una perdita di 4 milioni e 379 mila euro. «Quei soldi erano il patrimonio della comunità di Treviso. Adesso non ci sono più. E alla città queste iniziative della fondazione hanno lasciato poco o nulla, dal punto di vista sociale», attacca Giovanni Gajo, amministratore del fondo Alcedo, che dopo una dura intervista al quotidiano locale, “La Tribuna”, ribadisce ora: «Un azionista si rende conto del danno quando la sua banca crolla, perché perde i propri soldi. Ma qui è la stessa cosa. Ed è uno scandalo su cui le prime denunce risalgono a cinque anni fa. Dov’era chi doveva controllare?».

A vigilare sulle fondazioni d’origine bancaria è il ministero dell’Economia e delle Finanze. Carlo Borzaga, ordinario di Politica Economica all’università di Trento, uno dei più stimati studiosi di impresa sociale in Italia, su questo è netto: «Vigilanza ce n’è stata poca. Punto. E dove è avvenuta, è stata soprattutto formale. Certe operazioni altrimenti non si sarebbero viste». Continua: «Ci sono enti che fanno un lavoro eccezionale, ma altri che non hanno mai pensato ai più deboli».

Rotta su Vaduz
A Civitavecchia sono in molti a chiedersi dove fossero i controllori quando la fondazione bancaria locale, nel 2015, ha bruciato una ventina di milioni (quasi un terzo del proprio patrimonio) affidandoli a una compagnia di assicurazioni di Vaduz, nel Liechtenstein, attraverso un fiduciario svizzero ora indagato.

Due anni prima, nel 2013 l’ente presieduto da Vincenzo Cacciaglia si era invece comprato una televisione locale, Mecenate Tv. L’ente laziale ha già speso tre milioni e mezzo di euro per finanziare l’attività della propria emittente.

Nel suo curriculum vitae, il presidente Cacciaglia ricorda i figli, «Luigi, laureato in Giurisprudenza, e Francesca che attualmente si occupa di produzione televisiva». Francesca Cacciaglia, in effetti, si presenta su Facebook come direttore di produzione di Mecenate Tv Canale 815. E sul social network aggiunge: «voglio dire a chi dice che sono raccomandata e che mio padre mi ha comprato una televisone... che io ho sempre fatto questo lavoro con tutta me stessa e con umiltà... ho sempre fatto lo stesso lavoro... ho sempre fatto televisone!!! quindi prima di parlare di me sciacqatevi la bocca! grazie tanti cari saluti!!».

Così parlò (errori d’ortografia compresi) Francesca Cacciaglia, manager dell’unica televisione al mondo controllata da una fondazione bancaria. Una fondazione, quella di Civitavecchia, che ha perso più di 20 milioni tra il 2015 e il 2016 ed è presieduta dal padre della manager. Tutto in famiglia. Con i soldi altrui.