E' vero, l'euro ha causato (anche) molti problemi. Ma se ora l'Italia ne uscisse, la sua valuta nazionale verrebbe subito svalutata. E diventerebbe impossibile pagare il nostro debito estero, che appunto è in euro. Insomma, sarebbe una catastrofe

L'Italia dovrebbe rimanere nell'euro? Questa domanda sarebbe sembrata assurda pochi mesi fa, ma con la crescita che ristagna, i giovani che non trovano lavoro e i tassi d'interesse bassi - finora il maggior dividendo della moneta unica - deve trovare una risposta. Dopo tutto, è inaccettabile che ogni asta di titoli pubblici si trasformi in un'avventura. La questione può essere divisa in due parti.

Quali benefici ha tratto l'Italia dall'euro? E quali costi dovrebbe pagare se lo abbandonasse? Non sapremo mai con precisione la risposta alla prima domanda poiché possiamo soltanto avanzare ipotesi su quel che sarebbe oggi senza di esso. La cosa migliore, è forse quella di confrontare i risultati economici del paese prima e dopo la sua introduzione.

Prendiamo in considerazione sei variabili critiche: inflazione, tassi di interesse, debito, competitività, disavanzo della bilancia commerciale, e ultima ma non meno importante, la crescita.

Inflazione. Negli anni Settanta e Ottanta, l'inflazione in Italia era mediamente superiore al 13 per cento l'anno, ma è scesa gradualmente al 5 per cento circa man mano che la prospettiva dell'avvento dell'euro diventava più concreta negli anni Novanta. Oggi, un modesto tasso d'inflazione intorno al 2-3 per cento si è rivelato, almeno finora, uno dei maggiori successi della moneta unica.

Tassi di interesse. Prima dell'euro, i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro decennali italiani si aggiravano in media intorno al 4,5 per cento al netto dell'inflazione. Ma dopo l'adozione dell'euro i tassi d'interesse reali sono scesi nettamente a poco più del 2 per cento fino allo scoppio della crisi nel 2008. Sebbene la crisi dei debiti sovrani europei abbia comportato un aumento dei tassi d'interesse, questi rimangono a un livello del 3,4 per cento, ben al di sotto della media del periodo precedente l'introduzione dell'euro.

Debito pubblico. Già elevato da tempo in Italia, ha continuato a crescere per decenni prima dell'adozione dell'euro, raggiungendo un picco del 122 per cento in rapporto al Prodotto interno lordo nel 1994. La combinazione successiva fra il calo dei tassi d'interesse e l'aumento dell'avanzo primario ha consentito al paese di ridurre il suo debito al 104 per cento del Pil nel 2007. Ma in seguito alla crisi finanziaria, il debito è tornato al livello precedente l'introduzione della moneta unica. Ciò nonostante, il suo peggioramento, durante la crisi, è stato molto inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi industrialmente avanzati. Non solo, ma il Fondo monetario internazionale prevede che il suo livello si stabilizzi nei prossimi anni. Questo significa che la dinamica del suo andamento è, se non altro, migliorata dopo l'introduzione dell'euro rispetto alla situazione precedente.

Competitività. Il valore dell'euro riflette il grado di competitività non solo dell'Italia, ma di tutti gli altri 16 paesi che lo hanno adottato. Se i prezzi e i salari in Italia crescono più rapidamente rispetto ai suoi partner dell'Eurozona, essa diventa un luogo meno attraente in cui fare affari. A causa dell'aumento dei salari e della stagnazione della produttività, l'Italia si è trovata in tal modo di fronte a un serio problema di competitività dopo l'euro. Dalla fine del 1998, quando vennero fissati i tassi di cambio, sino al primo trimestre 2011, il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 26,7 per cento rispetto ai partner commerciali.

Commercio con l'estero. Prima dell'euro, l'Italia ha registrato un cospicuo attivo della bilancia dei pagamenti, ma negli ultimi tempi ha riportato un passivo culminato al meno 3,3 per cento del Pil nel 2010, nonostante la contrazione della domanda interna. Nel frattempo, la crescita delle esportazioni si è ridotta dal 4,4 per cento l'anno, fra il 1980 e il 1998, al 2,9 per cento fra il 1999 e il 2007.

Crescita. In Italia è rallentata bruscamente dopo l'introduzione dell'euro. Fra il 1980 e il 1998, il tasso di crescita del Pil si aggirava in media intorno al 2 per cento l'anno, in confronto all'1,5 per cento del periodo che va dal 1999 al 2007; se si tiene conto degli anni di crisi fra il 2008 e il 2011, questo tasso scende a un livello minimo dello 0,7 per cento.

Se questi risultati siano dovuti all'euro oppure ad altri fattori sarà sempre un argomento controverso. In termini storici, tuttavia, possiamo concludere che la minore inflazione e (ancor oggi) i tassi d'interesse più bassi sono un grande vantaggio derivante dalla moneta unica. La dinamica del debito pubblico in Italia è problematica, ma rimane gestibile. La perdita di competitività e il rallentamento della crescita, invece, rappresentano oggi una sfida molto ardua da affrontare.

Cosa succederà se le cose peggioreranno? Date le profonde divisioni politiche nell'Eurozona, l'instabilità dell'Italia e il peggioramento dell'economia su scala globale, i tassi d'interesse in Italia crescono ulteriormente e la sua economia potrebbe seguire la scia della Grecia, avvitando una spirale discendente di incremento del debito e recessione. A quel punto, l'Italia potrebbe allora abbandonare l'euro? Secondo Barry Eichengreen, l'uscita dall'eurozona comporta al tempo stesso costi operativi ed economici. I costi operativi sarebbero consistenti ma sormontabili. Paesi che non molto tempo fa hanno trasformato le loro economie in macchine per la produzione di armi e hanno combattuto una guerra sono perfettamente in grado di coniare una nuova moneta, riprogrammare i computer e limitare la fuga dei capitali non appena introdotta questa valuta.

Al contrario, il costo economico di un'uscita dell'euro sarebbe enorme. La reintroduzione e la svalutazione della lira avrebbero senso soltanto se questo deprezzamento fosse abbastanza grande da contribuire al ripristino della competitività. Ma una svalutazione di queste dimensioni - pari, ad esempio, al 30 per cento - renderebbe difficile allo Stato italiano e a molte aziende ripagare gli interessi sul loro debito con l'estero (espresso in euro e in dollari). Alla fine del secondo trimestre del 2011, il debito estero dell'Italia - pubblico e privato - era pari a 1,9 trilioni di euro, ovverosia al 115 per cento del Pil, di cui la parte pubblica assommava a 800 miliardi di euro, ovvero al 52 per cento del Pil. La reintroduzione di una lira svalutata comporterebbe un aumento dei debiti degli italiani pari a 570 miliardi di euro, ovvero al 36 per cento del Pil.

Indubbiamente, alcune famiglie e imprese con beni all'estero potrebbero guadagnarci da una svalutazione. Ma lo Stato italiano e le imprese che attingono a prestiti sul mercato internazionale si troverebbero esposti a ingenti perdite e correrebbero il rischio di insolvenza. Si esaurirebbe, inoltre, la liquidità per le banche e molti altri soggetti, anche se le loro posizioni nette d'investimento fossero relativamente bilanciate. Col risultato di un'enorme crisi finanziaria seguita da un contenzioso decennale.

Recenti episodi verificatisi nei mercati emergenti hanno portato a una contrazione media di circa il 5 per cento l'anno in seguito a crisi analoghe, anche se il declino è stato due o tre volte maggiore in Argentina o in Russia. Secondo stime dell'Ubs, l'uscita dall'euro potrebbe costare all'Italia fino al 50 per cento del Pil. Sebbene questa ipotesi sia quasi certamente un'esagerazione, anche supponendo che il Pil in Italia diminuisse del 10 per cento dopo l'uscita del paese dall'eurozona ma il suo tasso di crescita nel lungo periodo aumentasse dall'1 all'1,5 per cento, ci vorrebbero 25 anni prima che raggiunga di nuovo il livello antecedente. A complicare le cose, non vi è alcuna garanzia che una simile catastrofe spianerebbe infine la via verso un'accelerazione della crescita a lungo termine. I benefici della svalutazione potrebbero rivelarsi di breve durata ed essere controbilanciati dall'inflazione.

Quindi la risposta che diamo alla domanda tabù è di non pensarci nemmeno a uscire dall'euro. L'Italia ha fatto ormai la sua scelta, che non può essere annullata. E anche se potesse tornare indietro di vent'anni, col senno di poi potrebbe ancora scegliere l'euro. È ovvio, tuttavia, che la sfida principale cui si trova di fronte è quella di riguadagnare competitività, aumentare la produttività e riavviare la crescita. Ma, com'è ormai noto a tutti, è proprio su questi punti decisivi che le sue politiche attuali sono carenti.

(traduzione di Mario Baccianini)
Dadush è senior associate del Carnegie Endowment for International Peace