La digitalizzazione, la propensione all’estetica. E la transizione verde, realizzata dal mercato più che dalla politica. Il futuro del Paese passa da qui, per l’imprenditore triestino. Un commento sul governo Meloni? Nessun pericolo fascista. E su Schlein? Troppo a sinistra

Riccardo Illy, imprenditore, economista e ambientalista, già sindaco di Trieste, deputato e presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, inaugura “I dialoghi de L’Espresso”: una serie di interviste a protagonisti del nostro tempo con cui cercheremo di scandagliare il futuro e trovare idee per riprogrammare il Paese.

Facciamo subito chiarezza. Lei è Riccardo Illy, ma non quello del caffè. Giusto?
«Giusto. Quello è mio fratello Andrea. Io sono quello del tè, delle confetture, dei biscotti e dei succhi di frutta che ho raccolto nel Polo del Gusto».

Quanti siete in famiglia?
«Adesso siamo tre fratelli, una sorella, la mamma e poi nella generazione successiva sono in nove».

E lei è l’unico che non porta la cravatta…
«Nessuno mi ha mai spiegato la sua utilità».

Però è l’uomo immagine della famiglia.
«Beh, sì. Lo devo soprattutto a 15 anni di impegno nella pubblica amministrazione come sindaco di Trieste e come presidente della Regione Friuli Venezia-Giulia. Ci sono stati poi in mezzo i due anni alla Camera».

Quale è la cosa più importante che ha fatto da amministratore?
«Non dico di aver portato la disoccupazione da 10,5% a poco più del 5%. Non le opere che sono state fatte, che ne so, la pavimentazione in pietra di piazza dell’Unità d’Italia o il completamento del collegamento autostradale della città del Porto con la rete nazionale e internazionale, ma dico la rappacificazione fra la componente italiana, quella slovena e le moltissime altre componenti minoritarie che vivono a Trieste».

Che differenza c’è tra amministrare una città e amministrare una regione?
«Il Comune è molto simile a un’impresa con i problemi della complessità normativa, che se per le imprese già è farraginosa per un Comune è una cosa inimmaginabile. A livello regionale, invece hai un unico servizio da gestire che però è il più importante di tutti: la sanità. È importante perché ci va di mezzo la vita dei cittadini».

Si è fatto anche un paio d’anni da parlamentare. Dell’esperienza romana che ricordo porta?
«Ricordo soprattutto una serie di regolamenti e di normative inutilmente farraginosi. L’abbiamo visto anche con la rielezione di Sergio Mattarella o con l’elezione degli ultimi presidenti della Camera e del Senato».

Che giudizio dà del governo Meloni?
«È ancora presto per dare un giudizio definitivo. Hanno fatto delle cose bene: hanno corretto la legge di bilancio 2023. È fatta bene. Stimo Giancarlo Giorgetti, lo conosco da quando ero alla Camera. Lo considero un amico. C’è un bel rapporto con lui e lo ritengo una persona preparata che sta facendo le cose giuste. Lo dimostra il fatto che i mercati finanziari non hanno deciso di attaccare l’Italia. Anche sul Pnrr le modifiche che hanno proposto all’Unione Europea sono ragionevoli indotte da cambiamenti di scenario, come la guerra in Ucraina».

Ma non vede troppi scivoloni verso richiami al fascismo?
«No, non vedo segnali reali di questo genere. Quindi non credo, come scrive anche Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera, che ci sia oggi un rischio di ritorno del fascismo. Sì, forse mi piacerebbe sentir esprimere con più chiarezza la volontà di seguire i dettami costituzionali dell’antifascismo. Io sono anticomunista e antifascista. Sono contro qualunque forma di totalitarismo. Talvolta, in alcuni esponenti del governo, vedo la tentazione di voler intervenire d’autorità quando fanno fatica a persuadere: non ci sono ancora caduti e spero non ci cadano mai».

Ammetterà almeno che la politica estera lascia molto a desiderare.
«Soprattutto in alcune relazioni internazionali ritengo che l’Italia abbia necessità di cambiare strategia. Dovremmo avere rapporti positivi con la Francia perché è il Paese europeo con il quale abbiamo più elementi in comune, come la passione per la qualità, per l’estetica: lo si vede nella moda e nell’agroalimentare. Noi e la Francia siamo veramente fratelli e quindi andare a litigare proprio con loro veramente non ha senso».

Sulla Ue va ancora peggio…
«Sull’Unione Europea, mi pare che ci siano ancora degli atteggiamenti ondivaghi, per non dire ambigui. Da un lato si è capito che ne abbiamo bisogno, per esempio con i finanziamenti del Next Generation Eu, dall’altro però ogni tanto c’è qualche scivolata verso il nazionalismo, mentre dobbiamo capire che noi abbiamo bisogno di più Europa».

Di Elly Schlein che idea si è fatto?
«Per me è troppo spostata a sinistra. Renderà difficile il voto per il Pd degli elettori più moderati, fra i quali mi ci metto anch’io. E renderà impossibile un accordo fra tutte le forze di centrosinistra, perché è divisiva. Certamente Matteo Renzi, ma penso neanche Carlo Calenda, non si metterà mai d’accordo con Schlein e con quelli che stanno più a sinistra del Pd. Quindi vuol dire, come è successo in Turchia per qualche decennio, che il centrodestra non avrà un vero antagonista. Rischiamo di non avere l’alternanza per chissà quanti anni ed è un male anche per il centrodestra, perché non avere un’opposizione forte acuisce i problemi nella maggioranza».

Parliamo dell’economia italiana. C’è un’inflazione intorno all’8 per cento, i salari sono i più bassi d’Europa se non del mondo.
«L’inflazione è un problema grave, ma di breve durata. Terminato il problema del costo dell’energia che ha fatto salire il prezzo delle materie prime, tutte le altre materie prime torneranno ai livelli pre-Covid. Inoltre, ci sono tutta una serie di fattori non monetari che porteranno a spingere verso il basso l’inflazione. Faccio qualche esempio: la globalizzazione e l’e-commerce. Oggi qualunque impresa può vendere in qualunque Paese del mondo. Questo spinge giù l’inflazione. Inoltre, gestire un e-commerce è molto più efficiente che non gestire un negozio».

Così però si genera disoccupazione.
«Se quello dovesse essere il problema, allora con la rivoluzione industriale, la disoccupazione di quelli che guidavano le carrozze con i cavalli avrebbe dovuto esplodere. Come allora, ci saranno sicuramente meno posti di lavoro in certi settori ma ne saranno di più in altri».

Vuol dire che la tecnologia risolverà tutto?
«Non tutto, ma la via per cambiare il Paese passa dalla digitalizzazione che aiuta a ridurre i costi: siamo a metà del guado, ci sono ancora una serie di procedure nella pubblica amministrazione e nella sanità da migliorare».

Perché metà Paese è in sofferenza?
«Il vero problema sono le retribuzioni e quello è molto difficile da risolvere perché non c’è un automatismo. In Italia il costo del lavoro è ormai mediamente più basso rispetto agli altri Paesi europei. Per aumentare le retribuzioni, se non vogliamo incidere sull’inflazione, l’unico modo è far crescere la produttività. Ma il vero fardello delle retribuzioni sono gli oneri previdenziali. Abbiamo gli oneri previdenziali più alti al mondo assieme alla Francia: siamo oltre il 40% e alcune categorie arrivano al 44%. Non si può ridurre l’onere previdenziale mandando la gente in pensione prima, semmai mandandola in pensione dopo».

Ma a 67-68-69-70 anni, si può ancora lavorare?
«Perché no? Che cosa lo impedisce? Oggi la persona di 68 anni gode di una salute decisamente migliore di quella di una persona che 50 anni fa ne aveva dieci di meno. Ovviamente questo ragionamento non vale per i lavori usuranti».

Se si allunga l’età pensionabile, poi come si inseriscono i giovani nel mondo del lavoro?
«Purtroppo non è che se vanno in pensione 10 persone, 10 giovani verranno assunti. Non funziona così».

E come funziona?
«Funziona che le persone anziane hanno delle competenze che in genere i giovani non amano e quindi, quando vanno in pensione, molto spesso le loro attività vengono a cessare, vengono eliminate. Questo anche nell’attività manifatturiera: si rischia di perdere conoscenze e perdere imprese, di perdere Prodotto interno lordo».

Cosa ci riservano i prossimi 10 anni?
«Questo Paese ha delle risorse straordinarie naturali, archeologiche, artistiche, architettoniche. In più abbiamo due vantaggi competitivi straordinari ereditati dai romani: l’ingegno e la propensione per l’estetica. Questo è un momento d’oro per le industrie che sfruttano l’ingegno e quelle che sfruttano l’estetica perché ci sono ancora molti Paesi in via di sviluppo. E man mano che i Paesi si sviluppano, si crea una classe media. Quando le persone raggiungono un reddito medio alto, passano dalla quantità alla qualità».

Ultima domanda: che cosa dobbiamo fare per combattere il cambiamento climatico?
«Non credo che sarà la politica a risolvere il problema della CO2, ma saranno i mercati. Saranno i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche che costeranno molto meno del carbone, il chilowattora di energia elettrica prodotta con quei sistemi che semplicemente metteranno fuori mercato il carbone, il gas, il petrolio e quindi noi immetteremo meno CO2 perché ci converrà produrre energia elettrica da fonti rinnovabili e alimentate proprio da energia elettrica. Ci scalderemo, ci muoveremo, illumineremo, comunicheremo, scriveremo tutto, noi faremo tutto con un’unica fonte energetica che sarà rinnovabile. Ma perché sarà quella che costerà di meno, non perché lo avranno deciso dei politici. I politici farebbero bene ad assecondare e a cercare di accelerare questo fenomeno».