Gli studi scientifici segnalano il progressivo decremento degli esemplari, sintomo di un habitat compromesso. A metà Novecento in Europa erano 30 milioni, ora sono 1 milione e mezzo. L’idea del parco sanitario è del veterinario scrittore Massimo Vacchetta

Che cosa potranno mai avere in comune Parigi e Novello, paese di 983 abitanti in provincia di Cuneo? Entrambi avranno presto un ospedale riservato ai ricci e saranno i primi in Europa. Il motivo non è l’eleganza che Mauriel Barbery ha reso proverbiale nel suo best seller e nemmeno la dolcezza di quel musetto che sbuca da un gomitolo di spine. La questione attiene alla sopravvivenza della specie.

 

Ora qualcuno potrebbe osservare: il riccio è un grazioso animaletto, ma non si direbbe così fondamentale. Invece in realtà è una sentinella dello stato di salute dell’ambiente. Insomma, se sparisce il riccio l’homo sapiens dovrebbe preoccuparsi più di quanto sia già necessario. E se il clima non tornasse alle sue consuetudini, la specie in Europa potrebbe scomparire entro 20 anni.

 

Ma quanti sono i ricci? Esiste un solo censimento in Europa, quello del People's Trust for Endangered Species, secondo il quale il numero degli esemplari in Gran Bretagna dal 2000 a oggi si è dimezzato. A metà Novecento erano addirittura 30 milioni, ora sono 1 milione e mezzo. E in Italia? Forse 800mila, si calcola a spanne, comunque molti meno di 20 anni fa. L’allarme però è scattato ovunque. A Parigi l’Associazione "Erinaceus 2020” sta per inaugurare nel Bosco di Vincennes - il più grande parco della capitale francese - un ospedale per una trentina di ospiti con sala operatoria, terapia intensiva, area di convalescenza e nursery.

 

Ma anche a Novello fanno sul serio, in collaborazione con il Dipartimento di scienze veterinarie dell’università di Torino. È già stato avviato uno studio, coordinato dalla professoressa Maria Teresa Capucchio, che ha come primo obiettivo quello di individuare le cause di mortalità della specie. Racconta Massimo Vacchetta, il veterinario fondatore del Centro “La Ninna” di Novello che dopo 8 anni di attività sta per diventare ospedale: «Prima curavo i bovini negli allevamenti. Avevo una vita comoda, una bella macchina... Ma a un certo punto ho avuto una crisi professionale e anche sentimentale: il mio matrimonio è fallito e non sopportavo più la sofferenza che vedevo nelle stalle. Così ho cominciato a collaborare con un collega che si occupa di piccoli animali. Proprio lui una sera mi ha mostrato un riccio appeno nato, la Ninna appunto, e io ho provato una compassione infinita. L’ho allattato giorno e notte per un mese e quando l’ho liberata ho deciso di dedicarmi a questi piccoli mammiferi, considerati ultimi tra gli ultimi. Così ho creato il Centro e ho aperto una pagina Facebook dove scrivevo le storie dei miei ricci, in modo emotivo, di getto...”. Un metodo che funziona: i followers crescono fino a quota 218mila. “Il livello di interattività è incredibile e grazie alle donazioni del gruppo possiamo mantenere l’attività», dice Vacchetta.

 

Il centro già ora cura 3-400 ricci l’anno, ha sei dipendenti e una ventina di volontari, tra cui il fondatore stesso: «Non ho stipendio e non voglio finanziamenti pubblici. Ho una vita semplice, mi bastano i proventi dei miei libri sulle storie dei ricci». Il primo dei quattro (“25 grammi di felicità. Come un piccolo riccio può cambiarti la vita”) ha venduto 120 mila copie in tutto il mondo. E il centro è diventato meta di pellegrinaggio, persino dall’Australia. La chiave del successo? «Il libro contiene un messaggio semplice: segui la tua passione. Io ho mollato tutto e sono felice», spiega il veterinario scrittore.

 

Ora Vacchetta sta costruendo l’ospedale: c’è già un apparecchio radiologico digitale, ma servono l’ecografo, la macchina per l’esame del sangue, la sala operatoria, il pronto soccorso, la nursery. E servono presto. L’ambiente si fa sempre più inospitale per i ricci: oltre alle più comuni cause di morte come investimenti, incendi, pesticidi, riduzione dell'habitat, ora ci si mette pure il clima. Con la siccità diminuiscono gli insetti di cui i ricci si nutrono e il caldo prolungato fa impazzire il loro orologio biologico. Spiega il veterinario: «Nel 2021 abbiamo recuperato 70 piccoli nati da cucciolate anomale in autunno, cioè troppo tardi per mettere su il peso necessario ad andare in letargo e superare l’inverno».

 

In media “La Ninna” rilascia in natura la metà degli animali soccorsi. Gli altri non sopravvivono oppure restano ricoverati perché disabili. Come Casimira, la cui storia si incrocia con quella drammatica di Daniele, il ragazzo che l’aveva salvata. Racconta Vacchetta: «Daniele era stato mandato qui dai servizi sociali. Soffriva di Ahdh, un disturbo che provoca iperattività, ed era tossicodipendente. Aveva 21 anni, piercing dappertutto e occhi da cerbiatto. Adorava gli animali: perché loro non mi giudicano, mi spiegò».

Un giorno Daniele trova un riccio in fin di vita ai bordi di una strada. Ricorda Vacchetta: «Mi ha mandato subito una foto: era una giovane femmina investita da un’auto, sembrava già morta, era gonfia. Non potrò mai dimenticare lo sguardo implorante di Daniele quando mi ha chiesto di salvarla. Passai la notte a operarla, poi la curai per un mese e mezzo e alla fine la riccia sopravvisse. Daniele se ne prese cura con amore. La chiamai Casimira, così, senza un motivo. Poi scoprii che il nome significa portatrice di pace. Era proprio così: Casimira aveva portato la pace nel cuore di quel ragazzo difficile. Dopo il lockdown, quando lui sarebbe dovuto tornare a lavorare qui, ricevetti una telefonata dall’assistente sociale: Daniele era morto di infarto in comunità. Un colpo durissimo». E poco prima di Natale è morta anche Casimira, proprio nel giorno in cui il veterinario ha cominciato a scrivere il capitolo dedicato a Daniele nel suo quarto libro: “Raccontami qualcosa di bello”. Nella pagina Facebook della Ninna l'ondata di cordoglio è stata immensa: in 24 ore sono stati scritti oltre 1.700 commenti.

 

Se il riccio è a rischio, molte altre specie sono a un passo dall’estinzione: come il falco pellegrino, di cui resistono 7 coppie in Italia, o la lince di cui si contano solo 5 esemplari. E poi il gipeto, l’aquila del Donelli, il capovaccaio, l’avvoltoio monaco... Per occuparsi di loro, l’Università di Bologna, grazie a una donazione, sta aprendo un ospedale che è anche centro di ricerca. Si trova a Ozzano, su una collinetta vicina al Dipartimento di Scienze mediche veterinarie ed è in pratica una sua propaggine. L’idea è del professor Mauro Delogu e lo scopo è anche quello di preparare le nuove generazioni di veterinari alla cura dei selvatici considerando l’ambiente in cui vivono «come un unico grande organismo composto da un insieme di esseri interconnessi tra loro».

 

L’ospedale dispone di grandi voliere e vaste aree recintate. L’edificio è suddiviso in due parti: una per i selvatici e l’altra per i pets non convenzionali: conigli, criceti, furetti, pappagallini, rettili... Ci sono sale di degenza, radiologia e sala operatoria. La struttura è costata mezzo milione. Il personale? Allievi e specializzandi coordinati da Delogu. Spiega il professore: «Non puntiamo sulla quantità, badiamo di più alla qualità». E fa l’esempio di una coppia di gipeti ospiti del parco Natura Viva di Verona che si sono riprodotti in cattività. «Li abbiamo curati e abbiamo accudito il pulcino finché è stato possibile riportarlo nel suo habitat, addirittura in Andalusia. Per salvare una specie a rischio - sottolinea il docente – non basta curare migliaia di esemplari e rimetterli in libertà, è necessario trovare e rimuovere le cause di mortalità». L’ospedale di Ozzano si propone anche come punto di riferimento nazionale per i Cras, i centri di recupero di animali selvatici istituti per legge e finanziati dalle Regioni.

 

I Cras sono 101, secondo il censimento dell’Università di Padova che si trova sul sito recuperoselvatici.it. La regione più virtuosa è l’Emilia-Romagna, con 11 centri, seguita da Friuli-Venezia Giulia (10) e Lombardia (9). In coda il Molise che il Cras non ce l’ha. Secondo la legge dovrebbero essere in pratica uno per provincia. Nelle Regioni più generose come la Lombardia i finanziamenti pubblici possono arrivare fino a 35mila euro l’anno che fanno in fretta a finire. Così il funzionamento dei Cras poggia sull’impegno dei rarissimi dipendenti e di numerosi volontari e sulle donazioni private. Ma mentre per le grandi associazioni animaliste - Wwf, Lipu, Enpa - è più facile garantire qualche risorsa, per le piccole realtà reperire fondi con regolarità può essere un problema. E soltanto negli ultimi due anni il ministero dell’Ambiente ha previsto stanziamenti straordinari per i Centri.

 

Racconta Marco Galaverni, direttore delle Oasi Wwf. «Noi gestiamo 9 centri, da cui passano circa 8mila animali l’anno. I Cras di Vanzago e Valpredina accolgono tutti i selvatici, altri sono più specializzati, come quelli costieri che si occupano di tartarughe marine. Nel 2022 ne abbiamo salvate 350».

 

Nei Cras arrivano soprattutto ricci, appunto, uccelli feriti per impatti contro cavi della luce e edifici, oppure colpiti da cacciatori e bracconieri, ma anche tanti caprioli e cinghiali, due specie spesso oggetto di campagne di abbattimento. E qui nasce il paradosso, perché da un lato le Regioni finanziano le operazioni di contenimento di alcune specie ritenute dannose e dall’altro sostengono i centri che le curano. Solo di recente, con l’emergenza peste suina, alcune Regioni hanno vietato di accogliere i cinghiali nei Cras. Oltre a trovare soluzioni meno controverse, sarebbe indispensabile un piano nazionale dei centri per garantire una distribuzione più ordinata nel territorio. E Galaverni spiega il perché: «I centri sono la prima interfaccia con patologie o zoonosi (malattie trasmissibili dagli animali all’uomo, n.d.r.) che possiamo intercettare grazie al conferimento degli animali nei centri. È successo di recente con l’influenza aviaria nel Veneto, scoperta grazie a un uccello portato nel nostro centro di Rovigo». Insomma, più Cras e più ospedali per animali selvatici ci sono e meglio è. Per tutti.