Le guida Estela de Carlotto che ha potuto abbracciare suo nipote, uno degli oltre 400 figli di desaparecidos sterminati dagli uomini di Videla e i cui bambini vennero adottati dalle famiglia vicine al regime

«Con mio nipote è tornato anche il sangue di mia figlia, è tornata Laura. Mi ha illuminato la vita. Oggi siamo una famiglia. Mi dice “nonna ti voglio bene” e mi ha ridato la felicità». Estela Barnes de Carlotto non ha mai smesso di amare e combattere. Dal 1989 è la presidente delle “Abuelas de Plaza de Mayo”, le nonne che in Argentina, insieme alle “Madres”, portano avanti da quarantacinque anni la marcia su “Plaza de Mayo” a Buenos Aires, davanti alla Casa Rosada, sede presidenziale. Al grido «Nunca más», «Mai più», continuano a chiedere giustizia e cercare i loro nipoti, i bambini che portavano in grembo le loro figlie sequestrate tra il 1976 e il 1983, gli anni della dittatura iniziata dopo il golpe del generale Jorge Rafael Videla che il 24 marzo del 1976 ha destituito Isabelita, la seconda moglie di Juan Domingo Perón. Nonne, madri, che si battono per quei figli che tengono con loro, in quel simbolico “pañuelo blanco”, il fazzoletto bianco avvolto sulla testa come il pannolino di tela dei figli. Figli che continuano a vivere negli ideali che loro portano avanti e in una foto sbiadita, e stretta al petto. 

«La nostra è un’associazione umanitaria, è un lavoro di amore e incontro. Non importa se siamo ricche o povere, colte o meno, siamo nonne che soffrono ancora e cercano altri nipoti. Le nostre figlie sono state uccise dopo aver partorito e i militari si sono distribuiti fra loro i neonati, o li hanno dati a civili, quasi sempre complici, per farli crescere secondo le loro idee, una dinamica totalmente perversa», racconta Estela de Carlotto, 91 anni, occhi azzurri liquidi, profondi come l’abisso che ha visto e dal quale ha saputo risalire per non permettere che sua figlia Laura, che tutti i desaparecidos, venissero cancellati dalla Storia, e che i loro nipoti non conoscessero la verità.

Durante la dittatura, i militari hanno messo in atto una «riorganizzazione nazionale», con l’eliminazione fisica, e segreta, degli oppositori politici. «Ragazzi “colpevoli” di appartenere a una generazione che aveva creduto negli ideali del ’68. La Lotta armata era stata, di fatto, debellata già prima del marzo del ’76, con la decapitazione dei vertici militari e di intere colonne operative dei gruppi armati dell’Erp, “Esercito rivoluzionario del popolo”, di fede trotskista-guevarista, e dei “Montoneros”, di orientamento peronista»: dice Francesco Caporale, che è stato pubblico ministero dei tre processi per otto desaparecidos, tra cui la figlia di Estela de Carlotto, Laura con suo figlio Guido, celebrati in Italia, per volontà di Sandro Pertini, ma solo tra il 1999 ed il 2010, secondo l’articolo 8 del codice penale, che consente di giudicare in Italia delitti politici commessi all’estero in danno di cittadini italiani.

Sono circa 30 mila i desaparecidos, soprattutto giovani tra i venti e i venticinque anni, sequestrati nelle loro case, spesso di notte, bendati, incappucciati, caricati su vecchie Ford Falcon verdi senza targa e fagocitati negli oltre 350 “centri clandestini di detenzione” tenuti invisibili agli occhi della gente e della cui esistenza si sarebbe saputo solo nel 1983 quando in Argentina è tornata la democrazia, con le rivelazioni della Conadep, “Comisiòn nacionàl sobre la desapariciòn de personas”, commissione d’inchiesta istituita dall’appena eletto presidente Raúl Alfonsín per indagare sulla scomparsa degli oppositori. «Luoghi peggiori dei lager e sparsi ovunque in cui i detenuti erano costantemente incatenati e subivano torture inenarrabili», racconta l’ex pm Francesco Caporale che ha chiesto e ottenuto la pena dell’ergastolo per gli imputati, tra cui il generale Suárez Mason, «il padrone assoluto della vita e della morte di migliaia di giovani». Condanne fondamentali anche se, come spiega, «rimaste solo simboliche, nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione, ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro Paese».

Torture come le scariche elettriche della «picana», strumento usato nella Pampa argentina per controllare il bestiame, elettrodi messi nelle parti intime del corpo, in bocca, sugli occhi, spesso fino a far fermare il cuore. Come il supplizio del «submarino», con il quale si immergeva ripetutamente il detenuto in una vasca e lo si tirava fuori, prima che affogasse. Le giovani donne subivano violenze sessuali.

Giovani spogliati, legati, narcotizzati con il Pentothal, caricati su aerei militari venivano gettati, ancora vivi, nelle acque del Rio de la Plata o nell’Atlantico Sur dai «voli della morte» praticati in centri come l’Esma, la Scuola di meccanica della Marina, o il Campo de Mayo.

Le “abuelas” sono state odiate, torturate, alcune uccise, definite «las locas», «le pazze», dai militari, perché non sono rimaste in silenzio, si sono opposte al disegno di «riconciliazione nazionale» di Raùl Alfonsìn che nel 1987 con la legge dell’ “Obediencia debìda”, ritenuta incostituzionale nel 2005 sotto il governo di Néstor Kirchner, ha tentato di far cadere l’oblio, scagionando da ogni responsabilità gli ufficiali di minor grado. Hanno gridato contro gli indulti concessi dal presidente Carlos Menem che hanno portato, tra il 1989 e il 1990, alla liberazione dei maggiori responsabili come l’ex dittatore Jorge Rafael Videla e l’ex ammiraglio della Marina Emilio Eduardo Massera, condannati nel 1985 durante i processi ai militari celebrati in Argentina.

 

Loro non hanno permesso oblio e impunità: «Io faccio tutto quello che posso anche fuori dall’Argentina. Spero di avere ancora abbastanza tempo per aiutare altre nonne, perché quello che è successo non venga mai dimenticato e non succeda altrove. La verità è sempre stata nascosta, deformata. Per molto tempo abbiamo pagato tutto di tasca nostra ma, quando la democrazia è tornata, lo Stato si è fatto carico delle spese, oggi abbiamo undici team di esperti con avvocati, psicologi, antropologi», continua Estela de Carlotto.

La sua vita è cambiata il primo agosto del 1977 quando suo marito Guido Carlotto, nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, e trasferitosi in Argentina dove aveva aperto una piccola fabbrica di vernici, viene sequestrato perché rivelasse dove si trovava sua figlia Laura, studentessa universitaria di Storia e militante nella “Juventud Peronista”.

Estela de Carlotto, maestra di una scuola elementare a La Plata, città a 60 chilometri da Buenos Aires dove vive ancora, cerca suo marito tra i corpi senza vita che a volte riaffioravano sulle rive del fiume, paga qualcuno che dice che lo avrebbe fatto liberare. Il 25 agosto viene liberato, è dimagrito 14 chili e le racconta le torture subite con la «picana» nel centro di detenzione in cui aveva assistito all’uccisione di molti giovani.

«Il suo corpo era talmente martoriato che rimase infermo per tutta la vita e, probabilmente, la sua morte nel 2001 è stata dovuta anche a questo».

Il 26 novembre 1977 sua figlia Laura è stata sequestrata con il suo compagno in una pasticceria di Buenos Aires, Estela de Carlotto non aveva sue notizie da dieci giorni quando le aveva scritto una lettera per dirle che aspettava un bambino e che avrebbe voluto chiamarlo Guido, come suo padre: «Era in clandestinità con il suo compagno e mi mandava delle lettere tramite una persona, mio marito l’andava a trovare periodicamente», ricorda Estela de Carlotto che per riavere sua figlia accetta di pagare un riscatto. Dopo settimane senza notizie, si rivolge a una collega, che era la sorella del generale Reynaldo Brignone, esponente della giunta militare, a cui chiede la liberazione. O almeno di avere il corpo. Laura era stata internata nel campo di concentramento clandestino “La Cacha”: «L’hanno torturata mentre era incinta, le dicevano sempre che il giorno dopo l’avrebbero liberata e che avrebbe potuto far nascere il figlio circondata dall’affetto dei suoi cari, ma lei aveva capito che l’avrebbero uccisa. E infatti è stata assassinata il 25 agosto del 1978, e il suo corpo martoriato».

Estela de Carlotto riceve dalla Polizia l’invito a recarsi al commissariato del paesino di Isidro Casanova, a circa 60 chilometri da La Plata: «Ci restituirono il corpo, così avevamo il “privilegio” di poter portare un fiore sulla tomba, anche se non eravamo certi che fosse il suo. Ne avemmo la certezza solo quando il corpo fu riesumato ed esaminato da un gruppo di antropologi forensi di fama mondiale».

Suo marito e suo fratello non le consentirono di vedere Laura. I militari avevano simulato un finto conflitto a fuoco, sua figlia aveva il volto sfigurato da colpi di arma esplosi a brevissima distanza, anche sul ventre per eliminare le prove della recente maternità. La sua ultima immagine di Laura è la mano che usciva dalla bara, che lei ha accarezzato.

Estela de Carlotto non si fa piegare dal dolore, cerca suo nipote per trentasei anni, fino a quando nel 2014 trova Guido Montoya Carlotto, che ha il nome di Ignacio Hurban. Era nato nell’Hospital Militar di Buenos Aires la notte del 26 giugno del 1978: mentre Laura piangeva dando la vita a suo figlio, sapendo che avrebbe perso la sua, Buenos Aires esultava per i suoi Mondiali di calcio, appena vinti battendo l’Olanda.

«Avevo preparato una culla per mio nipote», ricorda Estela de Carlotto: «Ho abbracciato fortissimo la giudice quando mi disse che potevo incontrarlo, perché aveva accettato. Quando la notizia divenne pubblica a Buenos Aires e in tutta l’Argentina c’è stata una grande festa perché la mia storia era nota, lui era il nipote di tutti gli argentini». Grazie al “Banco nacional de datos genéticos” le “abuleas” sono riuscite a identificare 130 nipoti, ne mancano 300: «È la prima banca dati genetica del mondo, dove ci sono i campioni di sangue delle nonne e di tutti quelli che hanno dubbi sulla propria identità, serve a identificare il Dna dei figli delle persone scomparse. Ora è un’istituzione universale, usata in tutto il mondo».

 

Il nipote è cresciuto nella Colonia San Miguel, non lontano da Olavarría, nella provincia di Buenos Aires, dove Clemente Hubron, il padre adottivo, era contadino in una fattoria. «Sono stata così felice di abbracciarlo, mi piacerebbe farlo sempre. Sono felice ogni volta che un nipote viene identificato e incontra la sua vera nonna, è come se fossero tutti un po’ nipoti miei. Noi nonne ci sosteniamo, dividiamo la gioia, e la sofferenza quando un nipote non vuole incontrare la vera nonna perché difende la sua vita, ormai instradata. È fondamentale rispettare la loro volontà».

Questa è la storia della dignità di queste donne che si sono battute fino a vedere riaperti dopo il 2005 una serie di processi che stanno facendo piena giustizia.

Loro non hai mai smesso di credere nelle istituzioni democratiche: «Chi ha commesso queste atrocità deve ancora ricevere le condanne che merita e che non devono venire da noi ma dai tribunali». La battaglia di queste madri e nonne continua convinte che, come grida il loro slogan che è una frase di Che Guevara: «La única lucha que se pierde es la que se abandona», «L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona».