Ha combattuto l’Isis. Ha scontato due anni di sorveglianza speciale. Ora racconta la sua esperienza in un libro. «L’Europa dovrebbe sostenere la resistenza curda, anche con le armi»

Maria Edgarda Marcucci è conosciuta per tanti motivi. Uno è quello di aver combattuto nelle Ypj, le unità di protezione delle donne. Eddi, così com’è conosciuta, è arrivata nel nord della Siria nel 2017 per sostenere il progetto politico del confederalismo democratico del Rojava e per combattere l’Isis. Per questo l’Italia l’ha condannata, a maggio 2020, negli stessi mesi in cui rendeva omaggio a Lorenzo Orsetti, anche lui combattente in quei territori, ucciso dalle milizie dell’Is il 18 marzo 2019. “Una sentenza ideologica” l’aveva definita la stessa Eddi su queste pagine.

 

“Sorvegliata speciale” per due anni, limitata nella sua libertà di espressione e nei diritti civili fondamentali, Eddi è stata giudicata per il suo pensiero, più che per le sue azioni, tramite una disposizione di epoca fascista, creata per silenziare il dissenso. Quello che Eddi, 30 anni, non ha mai smesso di agire, con battaglie sociali e attivismo tra Roma e Torino, soprattutto nel movimento No Tav.

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Non si è mai risparmiata Eddi, non l’ha fatto neppure durante la sorveglianza, i cui stretti limiti, prevedevano anche il non partecipare a manifestazioni pubbliche. Lei l’ha fatto comunque, con la consapevolezza di andare incontro a ulteriori mesi di condanna. Ha raccontato tutto in un libro (Rabbia proteggimi, Rizzoli): «Un modo per rompere ulteriormente il tentativo di isolamento, un modo per prendere parola».

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Cos’è cambiato con la fine della sorveglianza speciale?
«La mia vita è logisticamente molto più semplice da quando è finita la sorveglianza. Per il resto non è cambiato granché, è chiaro che sono cambiati dei fattori oggettivi, ma facevo politica prima, l’ho fatta durante e continuo oggi».

 

C’è stato secondo te un avvicinamento da parte delle persone, in questi anni, su quanto avviene in Kurdistan?
«Molte persone hanno sentito la parola Kurdistan, conosciuto il confederalismo democratico, e questo ha un prima e un dopo nella figura di Tekosher Piling, Lorenzo Orsetti, il momento in cui è caduto è il momento in cui la società italiana ha voltato lo sguardo».

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Di quanto sta avvenendo nel Kurdistan qui in Italia non si parla, eppure il principale protagonista è noto: è il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
«Mentre in favore di camera Erdoğan si mette a mediare tra Russia e Ucraina, laddove i riflettori non sono puntati, commette crimini di guerra uguali a quelli per cui si condanna, giustamente, Putin. Molte personalità istituzionali hanno condannato Putin, ma non avviene lo stesso nel momento in cui Erdoğan invade, non uno ma due paesi, Siria e Iraq».

 

Cosa sta avvenendo?
«C’è in corso un attacco molto feroce, al momento le forze armate turche hanno sconfinato in Siria e Iraq sia con l’aviazione che via terra. Si sta cercando di distruggere le postazioni della guerriglia del Pkk, contestualmente è un continuo di droni di sorveglianza e di attacco, forniti alla Turchia direttamente dal governo italiano, attraverso la Leonardo. Le violazioni del diritto che si stanno consumando in Ucraina si stanno proponendo tali e quali in altri scenari, la differenza purtroppo è che di una guerra si parla e di un'altra no e non lo dico perché voglio proporre una orribile gerarchia delle vite: ogni guerra è feroce. Le persone hanno deciso di vivere in pace che si tratti di Siria, Turchia, Iraq o Ucraina».

 

Tanto del pensiero di Ocalan è dedicato all’autodeterminazione dei popoli, “il popolo sa quello che vuole”. Come si può conciliare la richiesta di pace in Ucraina e la giusta autodeterminazione di quel popolo?
«La pace e l’autodeterminazione per i popoli vanno insieme, l’AANES (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, ndr) ne è un esempio. È giusto supportare l’Ucraina anche militarmente, ma questo si sarebbe dovuto accompagnare a una dura critica al suo governo, vincolando gli aiuti al disconoscimento delle ideologie neonaziste che oggi vergognosamente tollera».

 

Sempre facendo un paragone su quanto avviene in Ucraina, per un periodo gli Stati Uniti diedero supporto aereo in Rojava. Tanto oggi si discute della scelta di inviare armi per supportare militarmente Kiev
«Sul mandare armi in Ucraina ripeto penso che sarebbe dovuto avvenire in maniera vincolata. Per quanto riguarda la Siria e l’Iraq la questione invece è meno controversa: bisogna inviare armi alla resistenza del Pkk, delle Ypg e Ypj. Stiamo parlando, di formazioni militari che hanno dato 17mila vite anche per la protezione dell’Europa, in questo momento sarebbe quanto mai urgente supportare la loro resistenza».

 

Un ex combattente come te e processato con te, Davide Grasso, ha immaginato l’applicazione del confederalismo democratico per i territori ucraini al confine con la Russia.
«Questa è una posizione collettiva che accomuna la maggior parte delle persone che hanno fatto la nostra stessa scelta: il concetto di nazione democratica, la possibilità politica e sociale di convivenza che il federalismo democratico offre è una lezione per vari territori anche in Europa e nel mondo, penso ad esempio quello che fu la situazione nel referendum catalano. Ma mentre il concetto di nazione democratica e la filosofia di Ocalan potrebbero essere utili, ecco invece che il confederalismo si ritrova sotto attacco spietato. Per risparmiare la vita alle persone in Ucraina non si riesce a trovare un accordo, mentre per distruggere un’esperienza sociale e politica così importante si trova un punto in comune».

 

La tua percezione, nonostante le difficoltà, è che il progetto in Kurdistan stia andando avanti?
«Le difficoltà sono immense: siamo in mezzo a una pandemia in un territorio in cui l’acqua viene razionata, perché dopo l’invasione del 2019 la Turchia ha occupato l’acquedotto. L’inflazione poi in Siria è oltre il 200%. Ciò detto continua la progressione e le esperienze di autonomia, Raqqa ne è un esempio, che è anche la ragione per cui si cerca di distruggerlo, in questo momento nei territori non direttamente sotto attacco ci sono manifestazioni contro l’occupazione della Turchia».

 

Pensi a un sostegno simile come quello che sta avvenendo per l’Ucraina, un sostegno europeo?
«Decisamente, penso che andrebbe supportata la resistenza delle persone dei territori confederali: inviare armi alla resistenza del Pkk, delle Ypg e Ypj. Tra parentesi stiamo parlando, per quanto riguarda le forze siriane democratiche, di formazioni che hanno dato 17mila vite anche per la protezione dell’Europa, in questo momento sarebbe quanto mai urgente supportare la loro resistenza».

 

Sono ventitré anni che Ocalan è prigioniero: c’è chi pensa che la sua figura potrebbe mediare nella risoluzione di questi conflitti.
«Ocalan sarebbe una figura chiave di mediazione e diplomazia. Sono stati tantissimi negli anni i cessate il fuoco unilaterali che Ocalan ha chiamato anche per il Pkk. Se non si riesce a trovare una soluzione politica non è di certo dal lato della resistenza che manca di cercarla».

 

Non ti è ancora stato restituito il passaporto per viaggiare, ma un domani vorresti tornare in quei territori?
«È evidente che non è una cosa che non dipende solo da me, ma avessi potuto sarei già tornata».