Donne che hanno abortito e si ritrovano il loro nome e cognome sbattuto su una croce. Senza aver dato il consenso. Per colpa di buchi normativi. In cui si inseriscono le associazioni pro-life. Ecco da dove parte l'ennesima violenza balzata in questi giorni all'attenzione della cronache (Foto di Antonio Faccilongo per L’Espresso)

Può capitare nell’Italia del 2020 che una donna abortisca e, a sua insaputa, il feto sia prelevato dall’ospedale, trasportato in cimitero e seppellito con rito religioso, con “nome e cognome della madre” scritto su una croce, insieme alla data dell’aborto. Così Marta ha scoperto per caso una tomba a suo nome, o meglio, a nome di suo figlio. 

In un post su Facebook, con oltre 10mila condivisioni, Marta accende le luci su una prassi che può interessare qualsiasi donna abbia abbia affrontato un aborto. E che non ha risparmiato neanche Francesca, la cui difficile storia di aborto farmacologico ha dato il via sulle pagine dell’Espresso alla campagna #innomeditutte, sugli aborti negati. Prima in forma anonima, Francesca ci ha raccontato il suo calvario e ora, dopo aver subito una seconda violenza, non si è tirata indietro, spiegando quanto le è accaduto. 

Dietro tutto le associazioni religiose
Ma questa non è una storia dei giorni nostri, è lunga almeno vent’anni. Nasce nel 1999 insieme a Difendere la vita con Maria (Advm), un’associazione di volontariato di Novara, che tra le prime inizia a stringere accordi con aziende ospedaliere e Comuni su quelli che la legge definisce “prodotti abortivi”, ciò che resta in seguito a un aborto, che sia terapeutico, spontaneo o, come la maggior parte dei casi, un’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Prima in Italia, l’Advm istituisce proprio nella provincia piemontese il cimitero dei “bambini mai nati”. 

L’attività dell’associazione approfitta, pur nella legalità, di un paio di norme non troppo stringenti nel campo della sepoltura e dello smaltimento dei rifiuti ospedalieri. D’altro canto è sostenuta - o per lo meno, trova partner ideali - da aziende ospedaliere italiane, Asl e decine di comuni in giro per l’Italia, con la quale stipula protocolli per accedere negli ospedali e successivamente seppellire i feti in appositi appositi spazi all’interno dei cimiteri, detti “Giardini degli angeli”. Della volontà della donna poco importa. Ad oggi solo l’Advm ha compiuto oltre 200mila sepolture: quante di queste sono state richieste dalle donne?

Cosa prevede la legislazione
L’art. 7 del Regolamento di polizia mortuaria del 1990 fa distinzione tra tre casi possibili in caso di aborto: bimbi nati morti (oltre le 28 settimane), in questo caso la sepoltura avviene sempre; “prodotti abortivi”, quelli di presunta età di gestazione tra le 20 e le 28 settimane e dei feti che abbiano 28 settimane di età intrauterina, cui spetta l’interramento in campo comune con permessi rilasciati dall’unità sanitaria locale, e i “prodotti del concepimento”, presunta età inferiore alle 20 settimane, considerati rifiuti speciali ospedalieri (perché non riconoscibili), quindi non destinati alla sepoltura, ma alla termodistruzione (non cremazione). 

Anche se su quest’ultimo caso in alcune regioni, come Lombardia, Campania e Marche è stato fatto un passo ulteriore, sfruttando il criterio più o meno avanzato di riconoscibilità, che permetterebbe, anche nel caso in cui il feto abbia meno di 20 settimane, che non sia smaltito come rifiuto sanitario, ma che ci sia obbligo di sepoltura. In generale la prassi è che per i prodotti abortivi e quelli del concepimento “parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto domanda di seppellimento”. 

Come agiscono le associazioni religiose
Superate le 24 ore, se non avviene nessuna richiesta, decade ogni diritto. In quel momento entrano in gioco le associazioni religiose che grazie ad accordi con gli ospedali dispongono del “prodotto abortivo” o “del concepimento”, con la libertà di seppellirlo secondo cerimonia religiosa. Persone legate all’associazione si recano nei presidi, avvengono poi i funerali: processioni con il carro funebre, in cui vengono letti passaggi delle Sacre Scritture, accompagnati da benedizioni e preghiere di cui nessuno è a conoscenza e a cui partecipano liberamente, oltre al prete, volontari e credenti. 

Questo è possibile in quanto l’associazione di volontariato, fa prima richiesta per essere riconosciuta all’interno del Servizio Sanitario Nazionale, e poi si impersona con il “chi per essi” previsto dalla legge. L’Advm è in più di un centinaio di comuni, conta oltre tremila associati e ha 60 sedi locali. Promuove “la cultura della vita, i diritti del concepito e l’atto di pietà del seppellimento dei bambini non nati, in collaborazione con le istituzioni sanitarie e la Pastorale della vita”. Si finanzia attraverso le donazioni: “Con soli 20 euro puoi sostenere il costo del seppellimento di un bambino non nato”, si legge nel sito. Ma non è la sola. 

Esiste la Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata nel ‘68 da don Oreste Benzi, e l’Armata Bianca, un “movimento ecclesiale che ha come scopo primario la cura spirituale dei bambini”, che nel suo sito, facendo distinzione tra l’Ivg e aborto spontaneo, spiega: “in considerazione del fatto che la maggioranza delle persone ignora che si possano e debbano seppellire bambini, si è pensato di riportare la prassi da seguire: su richiesta dei genitori: per il seppellimento individuale dei bimbi abortiti naturalmente; su richiesta del Movimento: per il seppellimento di bambini frutto di interruzioni volontarie di gravidanze”. E apre a chiunque “volesse impegnarsi in quest’opera di misericordia e in questa testimonianza di fede, perché la vita è sacra sin dal concepimento”.  


Lappoggio di ospedali e comuni
Tutto è legale e previsto dalle normative. Lo schema prevede patti sia con gli ospedali, che poi con i Comuni. Protocolli d’intesa predefiniti in cui le associazioni si impegnano, con una scadenza presa in accordo, a passare negli ospedali e raccogliere i feti in contenitori speciali biodegradabili. Così l’azienda ospedaliera si libera di alcuni costi: autorizzazioni al trasporto e al seppellimento, contenitori e cassette per le inumazioni, inumazione, manutenzione e decoro dell’area (come ad esempio cura di fiori, giardino e pulizia). Il Comune dalla sua mette a disposizione gratuitamente l’area dedicata, eventuali scavi e lavori, e gli operatori cimiteriali che si occupano del seppellimento. Quanti sono i cimiteri dei feti in Italia non si sa di preciso. Jennifer Guerra, giornalista di The Vision, ha provato a mapparli, arrivando a contarne una trentina. 

Disinformazione a danno delle donne
“Lascia perdere sono cose che non ti interessano”. Si è sentita rispondere così Francesca quando ha chiesto: “Ma adesso che fine fa?”, in sala parto, dopo un aborto farmacologico al sesto mese per gravi malformazioni al feto, tra atroci dolori, senza epidurale e totale abbandono da parte dei sanitari. 

Anche volendo nessuno le avrebbe spiegato che era suo diritto chiedere una sepoltura, oppure rifiutarla. Sicuro non le è stato detto che tutto può finire con una croce nel cimitero della tua città, con nome e cognome scritti sopra. In assenza di ogni norma sulla privacy e diritto costituzionale. A Francesca è successo al cimitero Flaminio di Roma, a Marta a quello Laurentino, istituito nel 2012. Nome e cognome sono all’interno del sistema dei Cimiteri Capitolini, basta digitarlo per scoprire un riquadro, una fila e una fossa, con tanto di cartina sul come arrivarci. 

Ma quante donne sono informate di ciò che accade? Non si sa quante siano le sepolture totali, e soprattutto quante di esse siano state richieste. Perché anche se non tutte finiscono con un nome sulla croce, quante donne vogliono una funzione religiosa che non hanno chiesto? Nei moduli sul consenso informato in caso di Ivg, quasi mai si parla del dopo, del seppellimento. Le informazioni sono presumibilmente date a voce, qualora lo si faccia, in altri casi tutto rimane oscuro. Nessun protocollo, o obbligo informativo, tutto dipende dalla fortuna o meno di chi si incontra sulla propria strada.  

Le mozioni pro-life
“Città per la vita”, “comune a sostegno della vita e della famiglia”, “l’aborto non come mezzo per il controllo delle nascite”. Con queste formule sono approvate nei Consigli comunali decine di mozioni pro-vita. Promosse nella totalità da partiti di destra, in particolare Lega e Fratelli d’Italia, negli ultimi anni hanno trovato terreno fertile: documenti intrinsechi di ideologie antiabortiste, che allo stesso tempo approvano finanziamenti alle associazioni pro-life o permettono ai consultori pro-famiglia di accedere in quelli pubblici. Imperia, Torino, Genova, Cremona, Caserta, Trento, Treviso, Venezia, Busto Arsizio, Biella, ultima Marsala, in Sicilia, questo agosto. Sono solo alcune: partite dal nord vent’anni fa, negli ultimi anni le associazioni puntano al sud. 

Il Garante avvia un'istruttoria. Radicali e associazioni protestano 
Ora dopo il caso di Marta, forse qualcosa si muove. il Garante per la protezione dei dati personali ha deciso di aprire un’istruttoria. I Radicali che già in passato hanno presentato interrogazioni parlamentari a riguardo, promettono battaglia. E Differenza Donna, un’associazione di Roma da sempre in prima linea, promette un'azione legale collettiva. 

Negli ospedali si consuma ogni giorno una sorta di patto fra parti, le associazioni religiose da un lato e la sanità pubblica, che sulla carta dovrebbe essere laica, dell’altro. A pagare sono sempre le donne. Queste associazioni pro-vita e antiabortiste, con la falsa finalità di voler supplire a un’esigenza pubblica e rendere un servizio, trovano ancora una volta il modo per aver voce sulle scelte delle donne e sui loro corpi. Ora basta.