Viaggio nell’epicentro della povertà italiana. Dove ogni giorno si lotta contro la bruttezza. E fioriscono mille idee per farcela. Un esempio? Il brand #fattoascampia

Mario Cappella lavora all’associazione San Gennaro nel Rione Sanità di Napoli, dov’è nato Totò, luogo assurto a simbolo di una vecchia camorra dispensatrice di giustizia con la commedia di Eduardo De Filippo, “Il sindaco del Rione Sanità”, dove oggi imperversano le baby gang con le loro “stese”. Mario, mentre mi indica bei murales e piazze messe a nuovo in occasione dell’anniversario della nascita del Principe, mi offre una chiave di lettura spiazzante delle cause della povertà: «Se vivi in un posto brutto ti abitui alla bruttezza. Nella bellezza c’è anche la dignità, mentre l’impoverimento imbarbarisce». Seguendo questa suggestione, dopo aver fatto visita a Daria Esposito, dell’associazione If, mi trovo incantato a perdermi dinnanzi alle Sette opere della Misericordia di Caravaggio, custodito nell’Istituto Pio Monte della Misericordia. Luci e ombre trasformano il realismo dei personaggi, raffiguranti le sette opere misericordiose che ogni buon cristiano dovrebbe compiere, in una scena di iperrealismo onirico ambientata nei vicoli napoletani. Mi trovo a pensare alle parole di Mario, alle analisi di Andrea, alla Scampia di Padre Fabrizio, di Suor Edoarda, di Enzo, ai sogni di Giuseppe. Le persone che sto per raccontarvi mi hanno insegnato che l’opposto di povertà e degrado non sono ricchezza e opulenza: sono dignità e bellezza.

Gomorra non abita più alle Vele
Pochi numeri, prima di dare voce alle vite difficili che stanno dietro di essi. L’ultimo rapporto Istat ci dice che la povertà oggi ha raggiunto il punto più alto mai registrato dal 2005 e nel Sud le cose vanno peggio: a fronte di una povertà assoluta che in Italia è del 6,9 per cento al Sud è al 10,3; lo stesso per gli indici di povertà relativa: Italia 12,3 per cento, Sud 24,7. Se la più alta quota di poveri, assoluti e relativi, è al Sud (più 321 mila poveri assoluti in un anno), nell’area metropolitana di Napoli circa il 30 per cento delle famiglie è in zona povertà. «Napoli è l’epicentro della miseria italiana», mi dice senza mezzi termini Andrea Morniroli, sociologo e socio della cooperativa sociale Dedalus, autore, insieme e Enrica Morlicchio del libro “Poveri a chi? Napoli (Italia)”, edito dal gruppo Abele.

Quando scendo dal treno alla stazione mi viene a prendere Padre Fabrizio Valletti, gesuita, prete ribelle che occupò piazza San Pietro contro la visita di Richard Nixon a Roma nel 1967. Guida con destrezza la sua vecchia auto in mezzo al tipico traffico napoletano, scansando con qualche manovra spericolata motorini che ci sfrecciano attorno mentre usciamo dal centro.

La nostra direzione è Scampia, dove padre Fabrizio anima il centro Hurtado.

Qui c’è il quartiere delle Vele, orrendi palazzoni fatiscenti dove è stata ambientata la serie tv “Gomorra”. A Scampia c’ero già stato due anni fa insieme a Michele Spina, il poliziotto che ha cacciato la camorra dalle Vele. Superata una statua di Padre Pio benedicente si entra: sporcizia, calcinacci, appartamenti sventrati, l’intrico dei corridoi di metallo arrugginito, i ponti che attraversano l’edificio si affacciano su appartamenti fatiscenti dove ancora vivono famiglie. «Ognuno di questi palazzi», mi ha raccontato Spina, «era stato trasformato nella più grande piazza di spaccio europea, modificando i cancelli d’ingresso dei palazzi con porte blindate, chiuse dall’interno con delle staffe di ferro e con delle feritoie attraverso le quali i pusher vendevano le dosi. Abbiamo aggredito anche fisicamente queste strutture, distruggendo, giorno dopo giorno, domenica compresa, tutti questi cancelli. Hanno dovuto chiudere così diverse piazze di spaccio perché sarebbero servite troppe vedette per controllarne tutti gli accessi».

Gomorra, dunque, non abita più qui, anche se restano da demolire ancora due Vele. Ma quanto ci metterà a tornarci, se posti come questo non saranno risanati e i loro abitanti restituiti a una vita civile?

«A Scampia», risponde padre Fabrizio, «il 25 per cento della popolazione è composta da giovani. Ci sono cinque Istituti comprensivi, cinque Scuole superiori, ma non il Classico, né l’Artistico; il 30 per cento dei ragazzi non arriva in terza media: la mancanza di opportunità, la scarsa vita culturale, un corredo linguistico inadeguato, sono la causa forse principale della povertà». Morniroli fornisce però una chiave di lettura diversa del dialetto: «L’80 per cento dei ragazzi non parla italiano perché considera il dialetto come la lingua dell’anima. Se vogliamo insegnare loro qualcosa dobbiamo conquistare la loro anima, stabilire empatia con loro e non pretendere che essi si adattino a noi. Per esempio, per consentire a un ragazzo che la mattina lava i vetri di seguire i nostri corsi li abbiamo spostati al pomeriggio».

Mentre giriamo per Scampia Padre Fabrizio mi spiega il brand #fattoascampia: i prodotti freschi degli orti coltivati dai detenuti di Secondigliano, una parte dei quali proviene proprio da Scampia, i prodotti conservati, i prodotti di sartoria, di legatoria e cartotecnica. #Fattoascampia, geniale capovolgimento del paradigma, per cui il “fatto” della droga, diventa il #fatto con “piedi, cuore, testa e mani” da chi cerca di uscire dalla povertà e dalla marginalità con il lavoro, 45 persone contrattualizzate. Sarebbe bello, questo spera padre Fabrizio, se magari qualcuno degli intellò o degli artisti che si spendono a chiacchiere contro la povertà desse una mano per diffondere il brand.

Il miracolo del parco Corto Maltese
Scampia: un luogo, dice padre Fabrizio, che va letto fuori dagli stereotipi. «Esistono due Scampie. Il degrado e la povertà, ma anche condomini di piccola e media borghesia, ben tenuti, che si difendono con cancelli e sorveglianza privata». Eccoli, e poco dopo il campo rom, davanti al quale gli abitanti di altri quartieri scaricano di tutto. Una discarica a cielo aperto, maleodorante, dove giocano bimbi e cani, le baracche sono costruite con un surreale tentativo di dignità, lamiere e legno, giardinetti, qualche piccola piscina di gomma. Poco più avanti, davanti a una chiesa, un ex galeotto fa il pescivendolo: «Don Fabri’, tengo le alici fresche fresche, quelle che vi piacciono a voi».

Il Giardino di mille colori, di Suor Edoarda è un’oasi di pace, dipinta con i colori dell’arcobaleno, dove i bimbi rom giocano e seguono un corso di balli moderni, mentre altri salgono sul pulmino per andare in piscina.
Continuando il nostro viaggio dentro Scampia passo davanti alla palestra di judo di Gianni Maddaloni : «Attraverso le regole dello sport, cerco di insegnare loro le regole della vita», alla scuola calcio dell’Arci, frequentata da 500 ragazzi, alla cooperativa L’uomo e il Legno di Enzo Vanacore, che dà lavoro a 45 persone: «Il lavoro è anche dignità». Arriviamo al parco Corto Maltese, una volta centro di spaccio, trasformata dai residenti in un luogo ameno, con panchine, giochi, prati curati e murales di panorami marini.

La scarsezza di risorse del Comune e delle istituzioni in generale, la palude burocratica che blocca anche le poche risorse disponibili, spinge chi si batte contro la povertà a far da sé, con l’aiuto di fondazioni private dedite alla filantropia. Accade così per tutte le associazioni che ho incontrato. Senza industria, senza banche locali, senza progetti infrastrutturali, il turismo, molto incentivato dalla giunta di Luigi De Magistris, costituisce comunque un flusso economico, un torrente che s’insinua nei reticoli della città e sembra l’unica opportunità. Ma è anche il più permeabile al lavoro nero e precario e alle infiltrazioni camorriste: «Se vuoi aprire un’attività e nessuno ti fa credito, c’è sempre un don Rafaè pronto a finanziarti, controllando di fatto l’attività», mi dice una fonte che preferisce restare anonima.

«È il mio sogno e lo realizzerò»
Mi sposto in centro, all’associazione If, per incontrare Giuseppe, 25 anni, barbetta curata, tatuaggio bene in vista e calzoncino corto contro l’afa di un torrido giorno di luglio. «Ho tre fratelli, in realtà erano quattro, ma uno è morto giovane. I due più grandi vivono da soli, io e il più piccolo con mia mamma che per campare s’arrangia. La scuola non mi piaceva perché secondo me il sistema era sbagliato: eravamo come tanti cani arrabbiati tenuti rinchiusi, tutti gli emarginati nella stessa classe. La mia idea si chiama Cargobike: un triciclo a pedalata assistita con una struttura di legno. Voglio portare nei quartieri del centro il caffè napoletano come si faceva una volta con la cuccumella e venderlo insieme a piccola pasticceria tipica, le sfogliatelle. A me non interessava un sussidio, io volevo un aiuto per cominciare questa mia attività, ma purtroppo la banca chiedeva una firma di garanzia per concedermi il prestito, ma in famiglia non c’è nessuno che possa farlo. Grazie all’associazione ho potuto usufruire del Fondo della Caritas. Per me è importante anche perché mi fa crescere proprio perché mi assumo la responsabilità di un prestito da restituire: per potermi anche pagare lo stipendio devo guadagnare 100 euro al giorno per dieci mesi l’anno, sessanta caffè e quaranta sfogliatelle. Prima, quando lavoravo in nero guadagnavo di più, ma non esistevo. È dura? Ma questo è il mio sogno e lo realizzerò. E se funziona voglio esportarlo anche in Europa».

In piazza De Nicola Elena de Filippo presidente della cooperativa Dedalus mi spiega il senso delle iniziative culturali dell’associazione Il Gomitolo: «L’arte, la cultura, sono occasione di incontro e di conoscenza». Mi presenta tre bellissime ragazze che lavorano come operatrici e mediatrici culturali, Ismahan, Fatima e Ruwam.
Dice ancora Morniroli: «La povertà di strada è cambiata. Non solo tossici, prostitute, senza fissa dimora, ma anche immigrati il cui progetto di integrazione al Nord è fallito. E ognuno si arrangia: ti racconto la storia di “Gratta e Vinci”, un immigrato chiamato così perché raccoglie i gratta e vinci di chi non ha vinto e butta via senza controllare e così riscuote minuscoli premi di pochi centesimi dei quali la gente non si accorge. La strada però si è incattivita. C’è un sovraffollamento dei livelli più bassi, si spezzano le catene di autoaiuto. Comincia a cambiare anche l’approccio. E devo tenere conto anche della percezione delle persone. Per esempio, un po’ di tempo fa mi trovavo in un’assemblea di quartiere nella quale veniva contestato il fatto che si spendessero soldi per fornire preservativi alle prostitute di strada. Il clima era decisamente ostile ma è cambiato quando ho spiegato che se c’è chi si prostituisce è perché per ognuna di loro ci sono dei clienti che potrebbero essere anche i vostri figli, mariti, fidanzati. Se proteggo le prostitute io proteggo anche voi».

Al Rione Sanità Mario Cappella mi porta in giro a vedere tutte le piazze dedicate a Totò, in occasione dell’anniversario della nascita. «Tra le cose di cui andiamo fieri c’è la palestra di pugilato in parrocchia dove i ragazzi accettano di essere allenati dagli istruttori della polizia». Con le sue due cooperative la Fondazione di Comunità San Gennaro dà lavoro a circa 35 persone, ma soldi pubblici non ne vogliono: «La dipendenza dal pubblico è tossica», dice Mario e mi spiega che i soci della Fondazione mettono 100 mila euro a testa.
L’assessora al Sociale della giunta napoletana Roberta Gaeta conosce bene i problemi perché viene dal mondo del volontariato sociale. Devo farle osservare che è vero che in giro ho visto tanta attività dal basso, ma mi pare un po’ fare di necessità virtù, visto che le risorse per la lotta alla povertà non ci sono, piuttosto che quell’ideologia dell’auto-organizzazione celebrata dal sindaco: «La povertà si combatte solo con il lavoro e lo sviluppo», mi dice l’assessora. «Se un ragazzo tra i 16 e 19 anni non riceve alcuna formazione il rischio che dalla povertà cada nella criminalità è altissimo. Noi, tra i tanti progetti, stiamo lavorando con 500 ragazzi in accompagnamento educativo al percorso formativo e professionale. Un centro in ogni municipio, è riconosciuto come tirocinio, 400 euro al mese. Gli adolescenti sono i più difficili, lavoriamo per farli accedere a circuiti che consentono loro di usufruire di altre misure. Non basta il reddito, serve il lavoro. Servono risorse e serve creatività. Ma serve anche com’è accaduto per il parco Corto Maltese a Scampia che la gente si organizzi dal basso e consideri la bellezza come il luogo che ti meriti».

Marco Rossi Doria, 64 anni, maestro di strada e studioso di politiche educative, già sottosegretario alla Pubblica istruzione dal 2011 al 2014, instancabile animatore di politiche contro l’esclusione sociale, commenta il dato sui giovani che lasciano il Sud, e avverte che oltre alla povertà materiale c’è anche il rischio della desertificazione e per questo elogia il vitalismo della società napoletana, capace di inventare soluzioni con fantasia. Ma lancia un allarme: «Se ogni anno il sei per mille dei giovani napoletani emigra, e sono i più intraprendenti, questa cifra messa insieme per quindici anni, forma un numero imponente. Se il 47 per cento dei minori della città di Napoli è povero o a rischio povertà, siamo di fronte ancora oggi a un problema che Francesco Saverio Nitti considerava urgente più di un secolo fa. Sono gli effetti della crisi, dei tagli al welfare che il centrosinistra non è riuscito a fermare: quando la crisi azzanna, i poveri vengono azzannati più dolorosamente. Napoli è il paradigma della povertà e della diseguaglianza, se non viene messa al centro di un grande progetto nazionale di riscatto, il suo futuro è compromesso. Ma chi parla di questo oggi?», conclude Rossi Doria. Viste da qui le promesse del governo legastellato sembrano davvero molto lontane.