Parla Michele Fratianni, uno degli economisti italiani più noti all'estero. E spiega perché per rilanciare la crescita è necessario rinegoziare il debito pubblico e avviare una massiccia vendita di beni statali

È «altamente probabile» che con la fine del “quantitative easing” «si riproporranno le condizioni per un'altra crisi del debito pubblico italiano». E sarà a quel punto che potrebbe tornare d'attualità un'ipotesi da sempre considerata politicamente esplosiva, ovvero una rinegoziazione del debito, con l'obiettivo di renderlo più sostenibile. Lo sostiene in questa intervista a L'Espresso un economista forse poco conosciuto al grande pubblico ma molto apprezzato fra gli esperti, soprattutto a livello internazionale. Michele Fratianni ama infatti definirsi un «accademico itinerante». Facendo base all'Università dell'Indiana, dov'è professore emerito della Kelley School of Business, ha infatti lavorato e insegnato in tantissime città e istituzioni. Negli Stati Uniti era arrivato nel 1964, per finire gli studi iniziati a Firenze, e nel 1980 il presidente Ronald Reagan lo aveva chiamato a far parte del suo gruppo di consiglieri economici (il celebre Council of economic advisers della Casa Bianca), con la qualifica di “senior staff economist” e l'incarico di occuparsi del sistema monetario internazionale.

Nel frattempo, Fratianni aveva lavorato alla Banca d'Italia e alla Commissione europea, scritto una “Storia monetaria d'Italia” e partecipato, da Bruxelles, al lancio del sistema monetario europeo. «Ma il lavoro dell'alto burocrate non era per me e così tornai all'università», racconta. Nel 2006 ha usufruito delle norme per il «rientro dei cervelli» e ora, oltre che nell'Indiana, insegna Finanza internazionale alla Facoltà di economia Giorgio Fuà dell'Università Politecnica della Marche. Una scelta che lui motiva così: «Volevo dare all'Italia e agli studenti italiani un corrispettivo di quello che ho ricevuto qui, prima di andare negli Stati Uniti».
 
Ai tempi della crisi del debito pubblico, che raggiunse il culmine nel 2012, Fratianni aveva scritto con Paolo Savona e Antonio Maria Rinaldi un contributo per un libro edito da “Il Mulino”, intitolato “Le leve per riavviare la ripresa», nel quale veniva lanciata una proposta destinata a suscitare grandi discussioni: la rinegoziazione del debito pubblico. L'idea di fondo era che l'austerità conduce in un vicolo cieco, perché frena il rilancio dell'economia senza riuscire a ridurre la mole enorme del debito pubblico. Di qui la proposta di “congelare” tutti i titoli di Stato, ovvero di posticiparne la scadenza di un periodo di almeno sette anni e di ridurre gli interessi pagati agli investitori, indicizzandoli alla crescita economica. Tutto, però, accompagnato da due interventi drastici: l'obbligo di chiudere in pareggio il bilancio per l'intero periodo di sette anni, in modo da non incrementare ulteriormente il debito, e una massiccia dismissione di beni pubblici – immobili, partecipazioni societarie, concessioni – per diminuire l'entità del debito stesso e ripristinare così, alla fine, le condizioni per tornare a crescere. Fratianni racconta che all'epoca illustrò questo progetto in diverse sedi istituzionali e a diverse personalità politiche, senza riuscire a fare breccia. Oggi, però, con la fine del “quantitative easing” (QE), i rischi che l'Italia torni a essere messa nel mirino dai mercati è altissimo. Partiamo dunque da lì.

Professor Fratianni, rispetto al 2012 e alla crisi del debito pubblico di allora, sono cambiati molti fattori, a cominciare dal QE. Oggi però lo spread fra i Btp italiani e i Bund tedeschi torna a aumentare: rischiamo un'altra crisi?
«Il QE è stato un intervento da "prestatore di ultima istanza" che non era previsto nei Trattati, ma che Mario Draghi è riuscito a varare. È un'operazione che avrà durata limitata nel tempo, forse fino al termine del mandato di Draghi alla guida della Banca centrale europea. Ha permesso alla Repubblica Italiana di abbassare notevolmente il costo del finanziamento sul debito pubblico. E di conseguenza, ha anche ridotto lo spread nei confronti dei titoli di stato tedeschi. Questa ciambella di salvataggio avrebbe dovuto dare il tempo al governo di lanciare una politica incisiva per la riduzione del rapporto fra debito pubblico e Pil. Così non è stato. Di conseguenza, quando la ciambella di salvataggio verrà sottratta, è altamente probabile che si riproporranno le condizioni per un'altra crisi del debito pubblico italiano».

A dispetto dei bassi interessi pagati negli ultimi anni sui titoli di Stato, il debito pubblico è cresciuto rispetto al Pil. È davvero impossibile ridurlo per via fiscale, migliorando via via i saldi del bilancio pubblico?
«È vero che i tassi di interesse che gravano sul debito pubblico si sono abbassati a seguito del QE. Quello che conta, però, è la relazione fra costo del finanziamento del debito e crescita economica. Quest'ultima è stata inesistente dal 2012 - ma anche prima - e di conseguenza non è stata capace di controbilanciare il costo del finanziamento. È una condizione di instabilità: le forze dinamiche presenti nell'economia non sono tali da garantire che il rapporto tra debito e Pil si riduca con il passare del tempo. Di conseguenza, entra in gioco la politica fiscale, ovvero la politica di austerità. Da un punto di vista puramente algebrico, esiste un surplus di bilancio che, a bocce ferme, potrebbe ridurre il rapporto tra debito e Pil. Purtroppo, però, le bocce si muovono. Nel caso specifico, l'austerità fiscale incide sulla crescita economica attraverso l'impatto che esercita sulla domanda di beni e servizi nel Paese. Questo effetto si è manifestato in modo negativo sul Pil. Altrimenti detto, l'austerità fiscale ha ridotto il flusso di nuovo debito che lo Stato deve emettere per finanziare il deficit di bilancio, però ha ridotto anche la crescita del Pil. Nella corsa fra l'uno (il numeratore) e l'altro (il denominatore), l'ha spuntata quest'ultimo».

Le istituzioni europee stanno lavorando a un progetto di “European Safe Bonds”. Pensa che questa proposta apra la strada a una rinegoziazione del debito pubblico italiano?
«Mi dispiace, non ho avuto modo di studiare la proposta. Forse è bene esaminarla quando da proposta diventerà qualcosa di realizzabile. A ogni modo, una delle possibili risoluzioni del macigno del debito pubblico italiano passa attraverso la mutualizzazione dei debiti nazionali, un qualcosa su cui i Paesi del Nord dell'Eurozona, e specialmente la Germania, sono fortemente contrari. Non è un caso che il debito pubblico dei Paesi membri del Sud è diventato un serio problema quando i mercati finanziari, a seguito della crisi in Grecia, hanno capito che non esistevano le premesse per una solidarietà fiscale all'interno della struttura istituzionale della moneta unica. L'Eurozona, come è risaputo, è un progetto incompiuto. Il pezzo critico che manca è l'unione fiscale. L'unione fiscale è il collante che lega stabilmente Paesi fortemente eterogenei, come quelli che costituiscono l'Eurozona».

Ritiene che il suo progetto di rinegoziazione del debito pubblico italiano sia ancora attuale?
«Premetto che non esistono cure indolori per una riduzione sostanziosa del rapporto fra debito pubblico e Pil. Le alternative vanno valutate in termini di costi e benefici. Naturalmente possiamo sperare in un deus ex machina, una improvvisa impennata della crescita economica che rovesci le condizioni di instabilità che sono state presenti in Italia da molti anni. Storicamente, questo è avvenuto nel cosiddetto periodo giolittiano, agli inizi del Novecento. Ma non vedo i motori che possano alimentare questa forte crescita economica oggi. Facendo sempre riferimento alla storia economica dall'Unità ad oggi, il Paese è riuscito a ridurre il rapporto tra debito e Pil in due altri modi. Il primo ebbe luogo fra le due guerre con un default di fatto sui debiti di guerra contratti con il Regno Unito e gli Stati Uniti; il secondo negli anni finali e immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, con una brutale inflazione che falcidiò il valore reale del del debito pubblico. Per ripetere, le tre opzioni storiche di riduzione del debito sono state crescita economica, default o ristrutturazione del debito e, infine, inflazione. L'appartenenza all'Eurozona impedisce la terza opzione, mentre ha ridotto i margini di manovra per la prima. La seconda opzione è possibile, ma implica costi. Costi che vanno misurati rispetto ai costi del non far niente oppure di illudersi che il continuare sulla strada ormai percorsa da diversi anni dissolva il macigno del debito pubblico. Per quanto riguarda i dettagli della mia proposta, ricordo che la rimodulazione del debito pubblico - essenzialmente un allungamento delle scadenze dei titoli pubblici e un abbassamento dei tassi di interesse, che coprirebbe il tasso di inflazione più una componente del tasso di crescita reale del Paese - veniva accompagnata da una vendita di parte del patrimonio pubblico. Oggi il QE ha di fatto reso meno attuale il progetto di rinegoziazione del debito pubblico. Credo però che lo diventerà nuovamente al termine del QE».

Perché i politici, alla rinegoziazione del debito, preferiscono allinearsi alle terapie dell'austerità fiscale?
«È relativamente facile trovare una risposta. In primo luogo, le terapie d'urto non suscitano un ampio consenso popolare e i politici preferiscono minimizzare i conflitti massimizzare la loro longevità professionale con soluzioni di tipo placebo. Gli americani hanno un'espressione carina per questo tipo di comportamento: “kick the bucket down the road”, calciare il secchio più avanti. In secondo luogo, l'austerità fiscale ha l'imprimatur dell'Europa e quindi trova una sua giustificazione nei confronti dell'elettorato. L'Europa diventa la ragione ma anche il pomo della discordia delle condizioni economiche nazionali. Naturalmente, l'Europa chiede riforme strutturali che possano sbloccare l'anemica crescita economica italiana. Ma queste riforme sono difficili da realizzare. Il circolo è vizioso. Per sbloccarlo ci vogliono terapie d'urto che, storicamente, hanno luogo in periodi di grandi crisi. A meno che si abbia la fortuna di un deus ex machina che all'improvviso favorisca una ripresa, nelle vesti di una nuova rivoluzione industriale o tecnologica, che allenti i lacci e laccioli che avvolgono l'economia».