Il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese venne ucciso per le sue indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, i rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e gli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. E dalle carte della famiglia emergono depistaggi e inerzie sulle indagini

Si dice che la mafia non dimentichi e si vendichi degli sgarri subiti anche a distanza di anni. Ma questa volta è lo Stato a non aver abbandonato la presa e ad aver deciso di perseguire gli esecutori materiali di un delitto, di cui finora si conosceva solo il nome del mandante.

Trentatré anni dopo l’omicidio di Bruno Caccia, avvenuto a Torino, in via Sommacampagna, la sera del 26 giugno 1983, si apre domani davanti alla Corte d’assise di Milano il processo al suo presunto killer. Lo scorso maggio, infatti, il giudice per le indagini preliminari Stefania Pepe ha emesso decreto di giudizio immediato nei confronti di Rocco Schirripa, il sessantaquattrenne di origini calabresi arrestato nel dicembre 2015 dalla Squadra mobile di Torino e accusato, appunto, di aver ucciso il procuratore della Repubblica del capoluogo piemontese.

A chiedere il rito alternativo, convinti dell’evidenza delle prove a suo carico, erano stati i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il sostituto Marcello Tatangelo e l’aggiunto Ilda Boccassini, che hanno coordinato le indagini.

Un’inchiesta ripartita grazie alla richiesta presentata dai figli del procuratore Caccia, attraverso il loro avvocato Fabio Repici: nell’esposto erano contenuti spunti investigativi che puntavano l’attenzione, oltre che sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte, anche sui rapporti della criminalità organizzata con i servizi segreti e sugli interessi di Cosa nostra nei casinò del nord Italia. Esattamente quelli su cui indagava Caccia e su cui aveva indagato anche l’allora pretore di Aosta Giovanni Selis, che per la sua attività d’inchiesta sul casino di Saint Vincent il 13 dicembre 1982 subì un attentato: la sua Cinquecento, imbottita di esplosivo, saltò in aria e lui si salvò per un soffio.

Nelle carte della famiglia Caccia, poi, si denunciavano depistaggi e inerzie da parte di alcuni magistrati delle Procure di Torino e Milano, da cui sarebbe derivato lo stallo nella ricerca dei colpevoli. E pochi giorni fa, durante le cerimonie per l’anniversario dell’omicidio, anche il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo è tornato sulla questione, definendo Caccia come “vittima di una controffensiva da parte di ambienti criminali, nella cui orbita gravitavano, fra l’altro, personaggi che prosperavano vicino alla Procura”. Se ancora resta parecchio da scoprire sui motivi che hanno determinato il suo assassinio, infatti, è certo che Caccia avesse dato fastidio a molti per la sua incorruttibilità.

Così le nuove indagini hanno portato sulle tracce di Schirripa, che in questi trent’anni aveva continuato a vivere a Torino e a lavorare come panettiere in borgata Parella. Per i pm milanesi, sarebbe proprio lui l’uomo alla guida dell’auto che avvicinò il procuratore mentre si trovava vicino casa, a passeggio con il suo cane. E proprio lui avrebbe ucciso Caccia, sparandogli il colpo di grazia alla testa.

Secondo il giudice che ne aveva autorizzato l’arresto a pochi giorni dal Natale dell’anno scorso, però, Schirripa non sarebbe stato solo: insieme a lui ci sarebbe stato Domenico Belfiore, il boss calabrese già condannato all’ergastolo nel 1993 come mandante dell’omicidio.

Scavando nel passato di Schirripa, gli inquirenti hanno scoperto legami di parentela con Belfiore e da lì sono partiti: hanno iniziato a intercettare il boss, nel frattempo uscito dal carcere a causa delle sue condizioni di salute, grazie a un virus che permette di attivare a distanza i microfoni degli smartphone e di trasformarli in registratori.

Le conversazioni intrattenute al telefono, ma anche in luoghi all’aria aperta considerati immuni da microspie, sono state quindi immagazzinate. E per sollecitare gli intercettati a parlare ed eventualmente a tradirsi, gli investigatori hanno adottato anche un altro stratagemma. Hanno inviato ai sospettati una lettera anonima con un articolo di giornale relativo all’omicidio e con i loro nomi scritti dietro a mano: a quel punto, il panettiere ha capito che il rischio di essere scoperto era altissimo e ha iniziato a progettare la fuga. Ma è stato arrestato.

Sul valore probatorio delle intercettazioni raccolte sono ora pronti a dare battaglia gli avvocati Basilio Foti e Mauro Anetrini, difensori di Schirripa: secondo loro, le parole del presunto omicida, pronunciate spesso in dialetto calabrese, sarebbero state fraintese o travisate nel corso delle operazioni di ascolto e di trascrizione da parte della polizia giudiziaria.

In realtà, Schirripa era personaggio già noto ai magistrati antimafia. Le prime accuse mosse nei suoi confronti, proprio in riferimento al caso Caccia, risalgono agli anni Novanta. Vincenzo Pavia, cognato di Domenico Belfiore, decise allora di parlare del delitto con i pm Marcello Maddalena e Sandro Ausiello, confermando di aver partecipato ai sopralluoghi per l’organizzazione dell’agguato e indicando i nomi dei componenti del commando.

A partecipare all’esecuzione, secondo lui, sarebbero stati Renato Angeli, Giuseppe Belfiore (fratello di Domenico), Tommaso De Pace e Rocco Schirripa. Le dichiarazioni di Pavia furono però ritenute inattendibili, perché al momento dell’omicidio Angeli era detenuto.

L’indagine venne quindi archiviata. Il nome del panettiere, poi, è riemerso sia nel 2011, nella grande operazione contro la ‘ndrangheta in provincia di Torino denominata “Minotauro”, a seguito della quale è stato condannato come affiliato del locale di Moncalieri, sia poco tempo dopo, quando è stato accusato dalla Procura torinese di aver favorito la latitanza di Giorgio De Masi “u Mangianesi”, ritenuto il capo della cosca di Gioiosa Jonica.