Il sogno di aprire un ristorante nella sua terra, il successo. Poi la richiesta di pizzo da parte della ‘ndrangheta e il locale che si svuota. Ma lui denuncia. Come aveva fatto suo padre, esempio di genitore impavido

A Lazzaro, una frazione del Comune di Motta San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria – in un’area ad alta densità ‘ndranghetista e in un periodo molto critico – il signor Demetrio Cogliandro, da tutti conosciuto come Mimì, gestisce un’area di servizio sulla statale. Sono gli anni ’80, la sua attività è in crescita e la ‘ndrangheta non può permettergli di avere successo. Arriva la richiesta di pizzo, arrivano le minacce, ma Demetrio non si lascia intimorire: denuncia. Una sera di dicembre, mentre sta rientrando a casa, alcuni uomini nascosti dietro a una siepe lo gambizzano.

 

Filippo è solo un ragazzo, ha diciassette anni: lui e i suoi quattro fratelli crescono con un modello di padre impavido, che non torna sui suoi passi, anche se ferito, perché sa bene che la strada giusta è quella che sta percorrendo. Non sta mettendo in pericolo i suoi cari, li sta salvando dalla peggiore schiavitù: vivere sotto ricatto. «Nel momento in cui vi dimostrerete deboli, loro se ne approfitteranno. Non abbassate mai la testa», li ammonisce. Padre e figlio provano a fare di tutto per rappresentare la Calabria più bella, con quell’amore disperato, perché consapevole, così ben raccontato da Corrado Alvaro.

 

Nel 2008 Filippo realizza il sogno di diventare uno chef e resta lì, nella sua terra, dove apre un ristorante nel meraviglioso palazzo-galleria di fine ’800 appartenuto all’artista Jim Jansen. È la sintesi perfetta di ogni sua passione: l’arte, la cucina, la promozione del territorio. Anche per lui arriva il successo, la gioia per quell’obiettivo raggiunto. E anche da lui il male arriva a bussare alla porta. Una famiglia mafiosa, che sta riorganizzando la “locale”, decide di chiedergli il pizzo.

 

Filippo denuncia, diventa testimone di giustizia, rinuncia alla scorta. Ma piano piano il ristorante si svuota, perché i clienti hanno paura. Lui è piegato, non riesce più a pagare gli stipendi dei dipendenti, trascorre le sue giornate cercando il modo per ripartire, con due bambini di nove e quattro anni da proteggere.

 

I primi segnali di resistenza arrivano grazie a don Luigi Ciotti, che, attraverso la rete di associazioni “Libera contro le mafie”, corre in suo soccorso. Così come il sindaco, che fa approvare una delibera per esentarlo dal pagamento dei tributi comunali in quanto vittima di mafia, e come la Camera di Commercio locale che lo solleva per cinque anni dalla tassa d’iscrizione annuale.

 

Arrivano anche le prime auto degli amici che simulano affollamento nel ristorante per rassicurare potenziali nuovi clienti. Le tende sono chiuse, nessuno dentro sta davvero consumando una cena: è solo una piccola innocente strategia. La gente, infatti, vedendo tutto quel traffico, inizia a convincersi che il peggio sia passato e che valga la pena dare una possibilità alla sua attività.

 

Filippo diventa ambasciatore antiracket, esporta la cucina calabrese nel mondo. Organizza anche “Le cene della Legalità” in giro per l’Italia, soprattutto nel Nord, «dove ancora la gente non ha compreso che le mafie si sono trasferite». Lui e i suoi familiari, le istituzioni che non abbandonano i cittadini onesti raccontano un’altra Calabria, un altro modello di famiglia, un altro e alto valore del dire «no». Che in questo caso è l’unico lasciapassare per la libertà personale e della terra che si ama.