L’attrice è stata per anni uno dei volti più conosciuti della serie tv “. Un set diventato casa, ma anche una bolla che l’ha fagocitata nel periodo cruciale della sua vita. Fino a quando non ha detto basta. In cerca della sua verità

Margot Sikabonyi – riconosciuta da tutti come Maria, per vent’anni una delle protagoniste nella serie tv iconica “Un medico in famiglia” – è nata a Roma da madre canadese e da padre ungherese. Nessuno dei due genitori parlava italiano, non avevano parenti né una rete famigliare attorno. Avevano scelto l’Italia per una visione del padre, geologo, che reputava il nostro Paese un luogo ideale dove vivere.

«Non conoscevo le canzoni italiane, non mangiavamo la pasta, vivevo in una bolla – racconta Margot – a quindici anni, dopo sei provini, mi scelgono per la lunghissima serie “Un medico in famiglia”. Mio padre muore, non vede nemmeno una puntata e io mi ritrovo a gestire questo vuoto, mentre raggiungo un grande successo, quasi spaventoso».

Margot lascia la scuola perché per la serie si lavora quotidianamente; in camerino studia e recupera con le lezioni private il sabato e la domenica. I suoi amici, principalmente, sono gli attori, il set è la sua famiglia. Altrove, nella vita reale, viene percepita come diversa, come una che ha privilegi. C’è una cura nei suoi confronti da parte del mondo adulto, ma anche diffidenza da parte dei coetanei. «Non sapevo più se volevano essere amici di Margot o di Maria. Ci sono stati giorni in cui ero più felice di vivere in quella tribù televisiva che di vivere a casa mia, dove non c’era più nessuno, se non mia mamma e mio fratello».

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Fin dall’adolescenza si ritrova al centro dell’attenzione. Dal Festival di Sanremo ai talk più popolari: tutti parlano di questa famiglia, con il nonno Lino Banfi, il nonno più amato d’Italia. «Ho iniziato, però, a percepire come fosse una bugia a regolare tutto. Prima è nata come sensazione di sconforto, nel corpo. Qualcosa mi diceva: attenzione! Le persone famose le consideravo infelici».

Dai quindici ai trentacinque anni ha vissuto nella serie, una vita intera, gli anni più significativi: quasi impossibile interrompere quel rapporto. «Non riuscivo a liberarmi, ma nel frattempo ho viaggiato, ho studiato biologia marina, sono diventata insegnante di yoga, ho fatto meditazione, ho cercato qualsiasi forma di spiritualità per cercare di dire basta. Ho anche seguito seminari nel silenzio delle foreste, ho scritto un libro sul valore del respiro, mi sono laureata in Psicologia».

Poi, un giorno, l’annuncio: «Me ne vado, lascio la serie». Quando riesce a distaccarsi, si sposa, diventa madre. Ma improvvisamente la sua carriera si blocca. «Ho lottato una vita per riuscire a pronunciare quel no, ma ho avuto tanti dubbi. Non avevo più un luogo di appartenenza e una casa. Ho iniziato a costruire, nella mia rinascita, un percorso artistico che somiglia alla donna che sono oggi. Ho scritto un film e una serie; mentre mi stavo separando, sono tornata al cinema, in un ruolo di protagonista, nel film “Bocche inutili”, con la regia di Claudio Uberti, basato sulle testimonianze reali di donne sopravvissute alla Shoah.

Giusto oggi parlavo con mio figlio, gli dicevo che non esistono sbagli. Non siamo sbagliati, se sbagliamo. Non si può scappare dalla nostra verità, in qualche modo si arriva sempre lì, uscirà fuori, è anche dentro il nostro corpo. Se la ignoreremo, ci divorerà. Ma se la lasceremo fiorire, ci mostrerà la meravigliosa espressione di noi stessi».