La scultura è considerata l’insegna della città. Ma la copia conservata nel cortile di Palazzo Carafa-Santangelo, a Spaccanapoli, era ormai provata dal tempo e dalle intemperie. Così i condomini si sono dati da fare. Nel silenzio delle istituzioni

A novembre dell’anno scorso era stata la testa della sfinge della statua del dio Nilo, il cosiddetto Corpo di Napoli, a riprendere il suo posto dopo un lungo restauro. La scultura è stata ricollocata sul suo basamento, nella piazzetta che ne porta il nome in pieno centro storico, e la città si è riappropriata così di uno dei suoi simboli più affascinanti e popolari. E da qualche giorno, a pochi passi dal dio Nilo, anche un’altra insegna di Napoli è tornata al suo originale splendore.

Ma il recupero di quest’opera, ovvero la copia ottocentesca in terracotta della testa di cavallo di Donatello, non è stato merito delle istituzioni, bensì di privati cittadini. Perché sempre più spesso, all’incapacità o all’impossibilità degli enti pubblici di farsi carico della tutela del patrimonio culturale, la cittadinanza risponde con proprie spontanee iniziative. Come nel caso, appunto, della testa di cavallo.

Nel 1471 fu Lorenzo dei Medici a inviare da Firenze l’originale bronzeo come dono al capoluogo partenopeo: a ricevere l’opera fu Diomede Carafa conte di Maddaloni, letterato e fidato uomo di corte degli Aragonesi, che la pose nel cortile del suo palazzo, al civico 121 di via San Biagio dei Librai. In pratica, nel cuore di Spaccanapoli.

Dopo essere rimasta per secoli esposta alle intemperie, la piccola statua trovò poi riparo al Museo Archeologico Nazionale, dov’è ancora custodita e al quale fu donata nel 1809 dai principi di Colubrano che stavano per vendere Palazzo Carafa. Da quel momento, quindi, nel cortile dello storico edificio venne posta in sostituzione la copia in terracotta. Ma anche quest’ultima, con il tempo, è andata deteriorandosi.

Per questo, preoccupati di perdere quel bene tanto significativo per la città, gli inquilini del palazzo hanno deciso di ingaggiare un’impresa restauratrice e, soprattutto, di autotassarsi per pagare i lavori. A curare il progetto è stato il comitato composto dall’amministratore di condominio Francesco D’Agostino, dal presidente dell’associazione “Palazzo Diomede CarafaRaffaele Ranaldi e dal presidente dell’associazione “Palazzi napoletani” e del premio “Cosimo FanzagoSergio Attanasio.

A garantire la supervisione, invece, è stata Angela Schiattarella della Soprintendenza per i Beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici di Napoli. I lavori di ripristino sono stati affidati a due giovani restauratrici, Gaia Raniello e Rosaria Cefariello, e sono durati circa tre mesi. Così, la testa di cavallo, dopo essere stata smontata e ripulita, è stata presentata al pubblico lo scorso 27 novembre con una cerimonia per cui ha collaborato anche l’associazione culturale “La Bella Napoli”.

Il restauro della testa di cavallo, insomma, rappresenta un risultato particolarmente significativo. Innanzitutto, per il valore simbolico dell’opera, entrata anche nelle leggende della tradizione partenopea. In secondo luogo, per l’esempio virtuoso dato dai condomini di Palazzo Carafa.

«A volte le istituzioni non danno la loro disponibilità per interventi a tutela dei beni culturali – spiega Attanasio – e di fronte al loro silenzio i cittadini si attivano in modo encomiabile. Noi, come associazione “Palazzi napoletani”, abbiamo già dato il nostro contributo per lavori effettuati a Palazzo Doria d’Angri e per il recupero di due pannelli cinquecenteschi del coro ligneo di San Domenico Maggiore, pannelli che peraltro si pensava fossero andati distrutti in un incendio».

Ma non solo. Ora i condomini di Palazzo Carafa si sono posti un nuovo obiettivo, cioè quello di restaurare pure il portale dell’edificio: una monumentale opera in marmo bianco risalente al Quattrocento e arricchita da due battenti in legno che raffigurano le insegne della famiglia Carafa. Per finanziare i lavori è già partita la ricerca di sponsor che possano dare una mano. D’altra parte, quello appartenuto al conte di Maddaloni è un palazzo storico di Napoli ed è uno dei migliori esempi di architettura napoletana rinascimentale.

Nel 1813, peraltro, divenne di proprietà del giureconsulto Francesco Santangelo e poi del figlio Nicola, ministro degli Affari interni per Ferdinando II di Borbone: i due crearono al suo interno una pinacoteca con 350 opere di artisti come Veronese, Durer, Tintoretto, Van Dick, Mantegna, Poussin, Tiziano e Rubens, oltre a una ricca biblioteca. Oggi il palazzo, parzialmente restaurato, attende il completamento e la riapertura del piano nobile, affidato alla Soprintendenza archivistica della Campania.

Il gioiello diventato simbolo dell’edificio e insegna dell’intera città, però, è proprio la testa di cavallo, citata per la prima volta in una lettera in cui Diomede Carafa ringrazia Lorenzo il Magnifico per il dono. Nel 1787 anche Goethe la descrisse, mentre il Vasari prima la definì un reperto archeologico, poi la indicò come opera attribuibile all’ambito di Donatello. E questa attribuzione è in linea, del resto, con quella risalente alle fonti cinquecentesche, mentre lo studioso Francesco Caglioti ritiene che sia opera di Donatello stesso.

Si tratta, in realtà, di una scultura incompiuta che avrebbe dovuto far parte di un monumento equestre. Ma Donatello, che forse si era ispirato a una testa di cavallo presente nei giardini di Palazzo Medici a Firenze, riuscì solo in parte a concludere l’opera, commissionatagli dal re Alfonso V d’Aragona. La realizzazione del monumento, infatti, fu rallentata dai molteplici impegni assunti dallo scultore e soprattutto dal sopraggiungere della morte di re Alfonso, nel 1458, e poi dello stesso Donatello, nel 1466.