Gli acquisti di titoli di Stato partiranno da marzo e dureranno 18 mesi. Ma sui rischi è compromesso con la Germania: saranno condivisi solo al 20 per cento

La Banca centrale europea (Bce) ha varato l'atteso piano di acquisto di titoli di Stato dei vari Paesi dell'Eurozona. Lo ha reso noto il presidente Mario Draghi, fugando gli ultimi dubbi della vigilia, legati alle spaccature tra i Paesi favorevoli a questa misura e quelli contrari, capeggiati dalla Germania di Angela Merkel. La Bce ha detto che, tra le misure già in atto (grazie alle quali acquista titoli derivati e bond dalle banche private, chiamati Abs e covered bond) e quelle nuove (sui titoli di Stato), arriverà a comprare sul mercato fino a 60 miliardi di euro al mese per un periodo che va dal prossimo mese di marzo al settembre 2016. Si tratta dunque di un piano da 1.080 miliardi, anche se è difficile al momento dire quale sarà la suddivisione fra titoli pubblici e titoli privati. Sul programma già in atto su Abs e covered bond, la Bce dovrebbe aver effettuato finora acquisti per un valore di circa 80 miliardi di euro, stando alle stime degli analisti.

Per superare il no dei contrari, il Consiglio direttivo della Bce ha adottato un compromesso. Draghi ha spiegato che la Bce manterrà il «potere di coordinamento degli acquisti», salvaguardando l'unitarietà della manovra, ma che soltanto su una parte degli acquisti – il 20 per cento di quelli che saranno effettuati – il rischio ricadrà sulle proprie finanze. Se dunque un Paese non fosse in grado di ripagare i propri debiti, come accaduto negli anni passati alla Grecia o a Cipro, la Bce subirà delle perdite soltanto su un quinto dei titoli acquistati; al resto dovranno far fronte i rispettivi Stati. Draghi ha detto che la misura serve per cercare di far ripartire l'economia europea, che sta rallentando e che sta dando segnali preoccupanti sul fronte dell'inflazione: i prezzi crescono troppo poco, segno di una domanda interna troppo debole, che spinge i consumatori a rinviare i propri acquisti a tempi migliori e rischia di far precipitare l'Eurozona in un'ulteriore recessione.

La manovra annunciata da Draghi non sembra dunque lontana dalle attese degli analisti. L'agenzia Bloomberg aveva effettuato un sondaggio fra gli operatori, dal quale era emerso che le aspettative si concentravano su acquisti per 550 miliardi di euro. Ieri, poi, erano uscite indiscrezioni che indicavano come – nelle telefonate fra i banchieri centrali antecedenti la riunione di oggi del Consiglio direttivo della Bce – si stesse discutendo della possibilità di un piano pari a 50 miliardi al mese per un anno, estendibile a due a determinate condizioni. Le cifre rivelate di oggi sono dunque un po' superiori, ma comprendendo Abs e covered bond non si può dire che le aspettative fossero sbagliate.

La logica di quello che viene chiamato inglese “quantitative easing” è quella di aumentare la quantità di denaro che circola nell'Eurozona, nella speranza che ripartano gli investimenti e i consumi, così come accaduto negli Stati Uniti, che hanno inaugurato queste politiche fin dal novembre 2008, poche settimane dopo il fallimento della banca Lehman Brothers. La Federal Reserve, la banca centrale americana, ha però effettuato acquisti per un importo largamente superiore, pari a 3.700 miliardi di dollari, interrompendo il suo programma di sostegno economico soltanto sei anni dopo, nell'ottobre 2014.

Sulle decisioni di oggi hanno però pesato le spaccature fra i vari Paesi. Draghi ha detto che c'è stata unanimità all'interno del Consiglio direttivo sul fatto che l'acquisto di titoli sia uno strumento di politica monetaria, cosa non scontata vista la feroce opposizione mostrata nelle settimane passate dai tedeschi. Sulla necessità di lanciare adesso il piano, il presidente della Bce ha però parlato di una «notevole maggioranza».

Come riferiva ieri il quotidiano londinese “Financial Times, la autorità tedesche hanno provato fino all'ultimo a fermare o quanto meno annacquare il piano di acquisto dei titoli. La linea scelta è stata quella di sbolognare alle banche centrali di ogni singolo Paese la responsabilità dei titoli comprati dalla Bce: in questo modo, se ad esempio l'Italia o la Spagna andassero incontro a difficoltà nel ripagare il proprio debito pubblico, le perdite non sarebbero condivise da tutti i cittadini europei – attraverso la Bce – ma soltanto dagli italiani o dagli spagnoli.

Questa impostazione è stata fortemente criticata da chi teme che una frammentazione di fatto dell'Eurozona possa vanificare gli effetti benefici della manovra di Draghi. In Italia lo ha fatto per primo il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, poi il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan. «Serve un intervento senza vincoli», ha detto Padoan, pur riconoscendo che in un'Europa che resta divisa in Stati ognuno con la sua politica nazionale, la mossa di Draghi costituisca «un esperimento nuovo».

Dal punto di vista tecnico, le critiche più articolate alla pressioni tedesche sono arrivate da Athanasios Orphanides, un economista cipriota che ha fatto parte in passato del Consiglio direttivo della Bce e che oggi insegna al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Già tempo fa Orphanides aveva pubblicato uno studio in cui dimostrava come la crisi del debito pubblico vissuta negli anni passati dall'Eurozona fosse stata amplificata dalla decisione presa nell'ottobre 2010 dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dall'allora presidente francese Nicolas Sarkozy, durante il cosiddetto vertice di Deauville.

In quell'incontro Francia e Germania sancirono che ogni Paese dell'Eurozona, prima di ricevere un aiuto finanziario dagli altri Stati, avrebbero dovuto provvedere a scaricare le perdite dei propri titoli di Stato sugli investitori che li avevano acquistati. In pratica, di fronte a un pericolo di fallimento, ognuno avrebbe dovuto cavarsela da solo, senza l'aiuto dei Paesi fratelli dell'Eurozona. Questa decisione spaccò di fatto l'euro e giocò un ruolo nelle crisi che, dopo di allora, si sono abbattute su Spagna, Portogallo, Cipro e nuovamente sulla Grecia, che aveva fatto crac già una prima volta alcuni mesi prima di Deauville. Nel frattempo, però, gli investitori e i risparmiatori accorsero a comprare titoli di Stato tedeschi, ritenuti più sicuri, permettendo alla Germania di pagare tassi d'interesse pari a zero sul proprio debito pubblico. Un beneficio enorme, per Berlino.

Nei giorni scorsi Orphanides ha ripetuto le proprie critiche, puntando questa volta contro il compromesso a cui ha puntato la Germania per non bloccare il “quantitative easing”: far sì che ogni Paese debba garantire i propri titoli di Stato acquistati dalla Bce è «un tragico errore», che rischia di portare a «un'ulteriore disintegrazione dell'area euro. Sarebbe il segnale che la Bce si prepara alla rottura della moneta unica e ciò può creare una dinamica capace di rendere quella rottura inevitabile».

Il motivo della spaccatura che ha agitato la riunione del Consiglio direttivo della Bce, e che ha prodotto il compromesso che ne è uscito tra i “falchi” e le “colombe”, è che la Germania e altri Paesi del Nord (tra i quali spicca sicuramente l'Olanda, il cui governatore Klaas Kont è sempre stato annoverato fra i più fedeli alleati di Jens Weidmann, numero uno della tedesca Bundesbank), temono che la nuova politica della Bce possa danneggiare le loro esportazioni. Se Draghi riuscirà nell'obiettivo di far ripartire l'inflazione, questa potrebbe correre maggiormente in Germania che nei Paesi come l'Italia, dove i consumi interni restano profondamente depressi. Questo, però, danneggerebbe l'export tedesco non soltanto a sud delle Alpi, ma anche verso gli altri Paesi dell'Eurozona.

Non c'è soltanto la competitività delle merci italiane verso gli Stati Uniti, che potrebbe migliorare grazie a un euro più debole (Matteo Renzi ha detto di «sognare» la parità fra la moneta unica e il dollaro, che vorrebbe dire una perdita del 16 per cento dell'euro rispetto ai valori attuali), c'è anche quella del Made in Germany verso i Paesi più riottosi a imboccare le politiche dell'austerità, indicati dai politici tedeschi come la causa di tutti i mali dell'Unione monetaria. Eppure la Germania esporta in Francia più merci di quante ne importi per un valore di 35,9 miliardi, in Spagna per 7,7, in Italia per 6,3, in Grecia per 2,9 (dati 2013).

Allo stesso tempo, però, la tempesta che si è abbattuta nei giorni scorsi sul franco svizzero dopo che Berna ha deciso di sganciare la valuta dall'euro, potrebbe mostrare come sia datato l'orgoglio per una valuta forte che i tedeschi provavano nel dopoguerra, dopo aver subito i disastri della svalutazione del marco ai tempi della Repubblica di Weimar. Lo ha scritto l'economista Gianni Toniolo, in un recente articolo pubblicato sul “Sole 24 Ore”: «La rivalutazione (della moneta nazionale, ndr), una volta vissuta con orgoglio, è oggi motivo di preoccupazione per gli indesiderati effetti su prezzi e produzione. Né piccoli e medi Paesi sono in grado di difendersi adeguatamente nelle “guerre monetarie” che i movimenti dei tassi d'interesse e dei cambi inevitabilmente scatenano. Su questi temi è utile riflettano quanti sognano in Europa, non solo in quella mediterranea ma anche a nord delle Alpi, un ritorno alle valute nazionali». La speranza è che il compromesso sul 20 per cento di rischio condiviso basti a evitare drammi futuri.