Giornalismo, ricerca e non solo. L'evoluzione dei mezzi di comunicazione e degli strumenti modifica la società. E richiede un dibattito approfondito su come questi cambiamenti influiscono nell'evoluzione stessa dell'uomo

La tecnologia e i suoi effetti sul giornalismo, sulla società e sulla ricerca, nello sfondo di un rapporto con l'etica che cambia costantemente e deve essere ogni giorno ridefinito.  Di questo si è parlato nella prima delle due tappe dei Dialoghi dell’Espresso ospitata dall'Università di Pisa.

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Marco Pratellesi, caporedattore dell’Espresso, offre una riflessione sui grandi mutamenti avvenuti nella professione giornalistica e apre il dibattito: «Il giornalismo è uno degli ambiti più coinvolti dallo sviluppo delle tecnologie. I professionisti dell’informazione sono costretti ad un continuo riposizionamento di carattere etico e deontologico». Pratellesi approfondisce l’argomento spiegando come lo sviluppo tecnologico può ridefinire l’etica e le deontologie del giornalista; poi cita il caso di Ruth Snyder, condannata a morte nel 1928 da un tribunale di New York per l’uccisione del marito con la complicità dell’amante: «Il Daily News in quell’occasione riuscì a pubblicare in prima pagina la foto della sua esecuzione, l’inviato ha modo di immortalare il condannato a morte grazie alla miniaturizzazione delle macchine fotografiche che permette al giornalista di farla sfuggire ai controlli. Grazie a quello scatto il giornale vende un milione di copie in più. Il legislatore, in seguito alle furenti polemiche, non potendo proibire l’uso delle nuove fotocamere, vieta la pubblicazione di foto di esecuzioni, salvo poi aprire al pubblico la possibilità di assistervi, visione fino a quel momento assolutamente interdetta».

Se lo sviluppo tecnologico ridefinisce l’etica e la deontologia del giornalista, la rivoluzione di internet le sconvolge in un brevissimo tempo. «Già nel 1998 - prosegue Pratellesi - internet incrina uno dei meccanismi su cui si fonda il sistema dell’informazione. Succede infatti che lo scoop relativo allo scandalo sessuale del presidente americano Bill Clinton viene annunciato da un sito internet gestito da un singolo utente, anziché da un’autorevole testata come Newsweek che, pur in possesso della notizia, si riserva di trovare nuove conferme prima di pubblicarla. È qui che si rompe in modo sostanziale un modello etico e deontologico in cui l’informazione passa da essere di “proprietà” del giornalista e del giornale per essere comunicata al pubblico solo dopo le dovute conferme, a oggetto conteso che lo stesso pubblico è in grado di far circolare, spesso senza passare dalle dovute verifiche».

Secondo il caporedattore dell’Espresso è con la nascita dei social network che il ruolo del giornalista subisce una nuova mutazione: «Se in precedenza la pubblicazione del servizio sanciva la fine del lavoro, adesso diventa esso stesso un nuovo punto di partenza. Il pubblico interagisce, critica, commenta in tempo reale, attraverso un sistema che costringe il giornalista a mettere in discussione continuamente il proprio operato. Oggi siamo testimoni come giornalisti di una trasformazione che sta cambiando il nostro modo di lavorare, ma che sul lungo periodo produrrà profondi cambiamenti anche nell’uomo. Se non ricordiamo più i numeri di telefono è perché ci hanno dotato di memorie esterne che lo fanno per noi (telefoni,tablet) questo probabilmente libererà spazio nei nostri cervelli che avranno modo, in futuro, di evolversi riuscendo a mettere in connessione più argomenti».

A partire dalle riflessioni di Marco Pratellesi si apre una discussione con alcuni professori dell’università di Pisa coordinata dal prorettore Marco Guidi, tesa a definire l’etica nel mondo della ricerca scientifica, a partire dalle sfide poste dal mondo contemporaneo, non solo in relazione allo sviluppo delle tecnologie, ma anche nel rapporto con il privato, oggi maggiore finanziatore di attività di ricerca.

Il quadro che ne esce è particolarmente complesso perché, come sostiene Simone D’Alessandro, ricercatore all’Università di Pisa: «lo scienziato è spinto a produrre, pubblicare, a volte a scapito della correttezza dei risultati, orientandosi verso la ricerca applicata e non verso la ricerca di base, i cui risultati raramente sono subito spendibili sul mercato». Da qui la necessità di una discussione pubblica sull’etica della ricerca e quella dei suoi finanziatori, che coinvolga la popolazione.

Arti Ahluwalia, docente di biotecnologie e ricercatrice del centro Piaggio, a questo proposito menziona il classico esempio dell’industria del tabacco che, per tanti anni, ha frenato ogni tentativo di ricondurre al fumo le cause di tumori, ma cita anche un personale esempio in cui si è trovata ad accettare un finanziamento da una banca per la realizzazione di un polmone artificiale scongiurando così l’utilizzo di topi per le sue ricerche.

Secondo Dino Pedreschi, professore di informatica e grande esperto di “big data”: «la soluzione per mantenere un rapporto etico nella ricerca finanziata da capitali privati passa attraverso il riconoscimento che qualunque scoperta di interesse generale deve essere resa pubblica. Il 90% delle pubblicazioni scientifiche non sarà mai citato e in molti casi perfino mai letto».

L’appuntamento si conclude con la domanda all’origine del dibattito: esiste una ricerca buona? Ad intervenire per prima è Laura Giarré, docente di ingegneria dei sistemi dell’Università di Palermo e membro dell’Advisory Board della fondazione Bocelli: «La ricerca è buona se ha ricadute positive in termini sociali». Con una sintesi convincente chiude il dibattito Arti Ahluwalia: «La ricerca è sempre buona in sé, perché è fatta per estendere conoscenze. Sono gli uomini che decidono l’uso che se ne può fare, nel bene e nel male, e che possono sbagliare».

ha collaborato Luca Parenti