Esperienze all’estero, una prova da assessora a Mantova, oggi dirige il Maxxi Architettura a Roma e dice la sua su rigenerazione urbana, città future e bellezza

L’ufficio di Lorenza Baroncelli, direttora Maxxi Architettura dal febbraio scorso, è scarno ed essenziale, degno di una nomade qual è: pochi volumi nella libreria ancora tutta da comporre, una shopper nera appesa all’attaccapanni, un computer portatile in un angolo del tavolo da lavoro che sembra proprio quello di un architetto. La grande vetrata colpita dai raggi accecanti del sole guarda sul cortile del Museo nazionale delle arti del XXI secolo progettato da Zaha Hadid nel cuore del quartiere Flaminio di Roma. L’atmosfera che si respira è quella di un loft newyorkese dove i giovani producono mostre, eventi, convegni. In una parola: creano.

 

«E pensare che sono diventata architetta per caso», esordisce Baroncelli, romana dell’Eur ma nata in Svizzera, classe 1981, un figlio di un anno, Diego e un compagno giornalista sportivo, Pierluigi Pardo («Lui è cresciuto a Corso Trieste ed è laureato in Economia»). «Dopo il diploma al liceo scientifico Cavour volevo iscrivermi a psicologia ma quando andai a fare il test di ammissione trovai una fila lunghissima. Tornai indietro. Lo stesso giorno c’era la prova per entrare ad architettura: decisi di tentare. Arrivai quarantesima su 400. Vengo da una famiglia in cui mio padre è ricercatore di fisica nucleare al Cern di Ginevra, mia madre un’insegnante, due fratelli sono ingegneri, uno musicista e mia sorella storica dell’arte. La scelta di architettura mi sembrò un giusto equilibrio fra il cȏté scientifico e quello artistico di casa Baroncelli». Segnato dal destino, seppur inizialmente con colpo di scena, anche il momento della tesi di laurea: «Ero già affascinata dalla Colombia e contattai Stefano Boeri come possibile relatore. All’epoca aveva uno studio a Roma e andai a prenderlo a Fiumicino con la mia Uno rossa. Arrivati all’Eur, lui svenne. Una volta ripreso mi disse: ti do la tesi ma non salirò mai più in macchina con te. Il giorno della discussione mi propose di andare a lavorare a Milano».

 

In effetti, le esperienze più importanti Baroncelli le ha fatte nel capoluogo lombardo e in Sudamerica con quel Giancarlo Mazzanti che, negli anni Novanta, ha decretato l’origine della rigenerazione urbana. «Ho vissuto due anni in Colombia, per me il Paese più bello del mondo. Pieno di contrasti. Partendo dal presupposto che ricchi e poveri hanno diritto alla stessa bellezza, ho preso parte alla realizzazione di progetti che ponevano al centro l’architettura sociale, dagli ospedali a Bogotà all’università di Medellin. A tal proposito mi piace citare il centro sportivo Bosques de la Esperanza che evoca un bosco di alberi, simbolo della natura, senso di unione e speranza per l’area degli Altos de Cazucà ed emerge fra i tetti delle favelas di Bogotà: da sole occupano il 55 per cento del tessuto urbano. Tutto questo è stato reso possibile dall’associazione Pies Descalzos fondata dalla cantante Shakira e dalla Ong spagnola Ayuda en Acciόn che hanno appunto chiamato Mazzanti come architetto».

 

A un certo punto per Lorenza Baroncelli inizia il rapporto col mondo dell’arte e dei musei: dalla Serpentine Galleries di Londra dove è stata Associate special project alla Biennale di Architettura di Venezia del 2014 diretta dal visionario Rem Koolhaas, fra gli urbanisti più famosi in circolazione (“La Città generica è la città liberata dalla schiavitù del centro, dalla camicia di forza dell’identità”), dove ha co-curato la mostra presentata nel Padiglione Svizzero disegnato da Herzog & de Meuron fino al Long Museum di Shanghai. Un anno qua, un anno là. Senza mai avere il tempo di mettere radici. «Ho costruito il mio percorso professionale all’estero per poi tornare in Italia», dice. «L’arte si occupa del futuro e gli artisti lo interpretano nel presente. Arrivata a un certo punto, volevo qualcosa di più concreto».

 

E l’occasione si presenta con un incarico di assessora tecnico al Comune di Mantova, sindaco Mattia Palazzi: quattro anni intensi all’insegna delle sfide. «Ero assessora senza portafoglio, unica donna in Italia dedicata alla rigenerazione urbana. In quel periodo ho messo insieme l’esperienza fatta in campo artistico e quella sui sistemi complessi delle città. Avendo le mani libere anche se era comunque necessario costruire un consenso: il progetto non è solo l’idea ma anche come lo realizzi. Oggi l’urbanistica si occupa di risolvere i problemi del passato e invece dovrebbe concentrarsi sulla costruzione delle città future». Grazie alla rigenerazione del complesso monumentale delle Pescherie di Giulio Romano che versava in totale stato di abbandono e rischiava di essere alienato, Baroncelli si è cimentata con il tema della luce. E del fundraising (l’intervento è costato 250 mila euro di cui solo 80 mila derivanti da risorse pubbliche). «È molto difficile integrare l’illuminazione nell’architettura e il grande rischio sarà quello di arrivare ad avere tre tipologie di città: di serie A, ovvero i centri storici più turistici, di serie B con i quartieri borghesi dotati di luci smart che si accendono al passaggio e di serie C dove le zone periferiche resteranno al buio. Ricordo che, nel periodo in cui ho lavorato in Triennale a Milano (di cui è stata direttore artistico dal 2018 al 2022, ndr) ogni anno si spendevano cifre consistenti in bollette, che rappresentavano una voce importante del bilancio vista la dispersione energetica di un edificio costruito nel 1933».

 

Rigenerare? Oppure demolire e ricostruire? La pandemia ci ha fatto cambiare idea su molti temi. «Gli edifici del passato erano in pietra, solidi e duraturi. Quelli del Ventesimo secolo sono in vetro e acciaio, non riconvertibili. Questi materiali hanno vita breve, non più di 70/80 anni. Bisogna quindi fare ricerca in questa direzione». Cosa dobbiamo aspettarci, dunque, dall’architettura nei prossimi anni? «Finita l’epoca delle archistar costruite dalle riviste specializzate, oggi non si immaginano più i grattacieli che stupiscono, uguali in tutto il mondo. Le nuove generazioni di architetti hanno un approccio più delicato, meno sensazionalistico, fatto di piccoli ed eleganti interventi ma molto calati nel contesto. Un po’ come il lavoro portato avanti da Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, architetta siciliano con studio in provincia di Ragusa che disegna case unifamiliari, ricavate da ex asili o stalle, prediligendo la piccola scala. A lei, che ha sempre opposto ai progetti sensazionali quelli sartoriali, dedicheremo una mostra in autunno al Maxxi». Al centro dell’attenzione anche il design, fino ad ora appannaggio di Milano. «Oggi il design si divide in due grandi categorie: quello, riconosciuto dal mondo della critica e delle istituzioni culturali, che riflette sull’uso dei materiali e sulla loro trasformazione, per esempio dalle alghe infestanti si possono ricavare tessuti. A livello di organizzazione del lavoro e conseguente evoluzione, i giovani designer rifiutano il rapporto con le aziende e fanno rete per produrre le loro idee. C’è poi il design di prodotto di cui non sappiamo nulla. Usiamo quotidianamente oggetti anonimi: vi siete mai chiesti chi ha disegnato le mascherine Fp2 o i mobili dell’Ikea?».

 

Dopo tanto girovagare, «l’orgogliosamente romana» Lorenza Baroncelli ha mollato gli ormeggi in riva al Tevere, zona Prati. E intende rimanerci. «Con Pierluigi ci siamo conosciuti a un evento sul calcio in Triennale e, per strane coincidenze, rincontrati qualche giorno dopo sull’Appennino toscano al Dynamo Camp, centro di terapia ricreativa per bambini. È scattata subito una certa alchimia. E mi ha trascinata allo stadio dove seguiva la telecronaca di Empoli-Roma. Abbiamo in comune la passione per i viaggi: lui commenta le partite, io cerco architetture. In fondo sono due mondi che si assomigliano. Città, folle, dinamiche sociali. Durante il primo lockdown il nostro rapporto si è consolidato. Rimasta incinta di Diego ho capito che dovevo tornare a casa. Questo figlio è stato fortemente voluto: è uno sconosciuto entrato nella mia vita e me ne sono innamorata subito. L’ho portato con me anche al primo colloquio con Alessandro Giuli, il presidente della Fondazione Maxxi. A un certo punto Diego ha iniziato a piangere. E ha rotto il ghiaccio. Cosa mi piacerebbe progettare per lui? Una scuola a misura di bambino, luminosa, con ampi spazi di qualità per socializzare e i muri bianchi. Da Roma parte la bellezza. Che è lo strumento più potente per combattere i problemi».