Adriano si è opposto alla richiesta di utilizzare la somma di 1,2 miliardi sequestrata al fratello Emilio per il risanamento ambientale dell'area. Il gip di Milano si è riservato di decidere. I Pm: serve un concordato

La famiglia Riva si oppone all'utilizzo dei soldi che le sono stati sequestrati in Svizzera per il risanamento ambientale dell'Ilva di Taranto. La notizia è emersa oggi durante l'udienza a porte chiuse tenuta al Tribunale di Milano dal giudice per le indagine preliminari Fabrizio D'Arcangelo, che deve decidere sulla proposta avanzata dal commissario straordinario dell'acciaieria, Piero Gnudi, di utilizzare per le bonifiche la somma di 1,2 miliardi sequestrata a Emilio Riva, nel frattempo scomparso, e al fratello Adriano Riva, che si è opposto. Per ora, dunque, I soldi restano nei forzieri di Ubs e Aletti, in attesa che il gip sciolga la riserva (non è stata indicata una data) sulle questioni messe sul tavolo durante l'udienza di questa mattina, da cui molti si aspettavano uno sblocco della situazione.

Le attese, infatti, erano per una decisione positiva, alla luce della norma ad hoc introdotta nel febbraio di quest'anno dal governo di Matteo Renzi, grazie alla quale l'ingente somma avrebbe potuto rientrare in Italia per essere utilizzata da Gnudi per dare corpo al piano di risanamento ambientale, imprescindibile per riportare in piena operatività il grande stabilimento pugliese e favorire l'acquisto da parte di uno dei gruppi che si sono candidati.

Da quel che è trapelato dopo l'udienza, si comprende invece che il percorso è ancora irto di ostacoli e che il lieto fine è tutt'altro che scontato. Innanzitutto perché i difensori di Adriano Riva, azionista di minoranza del gruppo Riva Fire-Ilva, hanno posto una questione di costituzionalità. Se il gip la riterrà ricevibile dovrà attivare la Corte Costituzionale, con i tempi che ne conseguono; in caso contrario egli stesso potrà rigettarla per manifesta infondatezza o irrilevanza.

La procura invece non si è opposta a questo meccanismo, ma ha messo sul tavolo una serie di questioni sostanziali che, a parer dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, andrebbero valutate attentemente. Il nodo centrale del ragionamento è la certezza che i fondi vengano effettivamente utilizzati per la messa in regola degli impianti. La norma voluta dal governo prevede che si proceda a un aumento di capitale di Ilva, ma se la società dovesse fallire prima del compimento dei lavori dove andrebbero a finire queste somme? Entrerebbero nel riparto dei creditori, in massima parte banche, e a Taranto resterebbero solo le macerie ambientali.

Per evitare questo pericolo la strada da percorrere sarebbe quella dell'entrata in una procedura concorsuale della società, ad esempio sotto l'egida di una Prodi bis o altra norma creata ad hoc. Una volta messa in salvo la continuità aziendale, sulla quale adesso vi sono molti dubbi, si potrebbe procedere con il grande riassetto delle attività, sia ambientale sia economico. Ma questo vuol dire che la famiglia Riva dev'essere totalmente estromessa dalla proprietà e che non abbia più alcuna voce in capitolo neanche nella sua cessione.