I visitatori sono in crescita come gli incassi, ma la tutela delle opere è scarsa. A due anni dall'ingresso dei nuovi direttori nei maggiori istituti italiani, un primo bilancio di cosa sta succedendo

L’euforia è d’obbligo. Con 45 milioni e mezzo di visitatori, i musei statali possono vantarsi di aver superato, come utenti in Italia, anche Facebook. Così, il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, dà fiato a un governo affamato di stime positive: le statistiche su affluenze e ricavi dei monumenti dispensano solo buone notizie. E grazie al traino dei primi venti musei autonomi voluti dalla riforma - che come mostra Federculture hanno registrato un salto del 16,7 per cento sui biglietti e del 37,7 per cento sugli incassi rispetto al 2014.

Ma le pinacoteche non sono fabbriche, e la valutazione del loro successo non dipende soltanto dagli scontrini. Quanto dalla missione culturale loro attribuita e dal  modo in cui l’assolvono. L’Espresso lo ha chiesto a esperti e professori esterni al circuito. Ed è andato a spulciare i primi bilanci ufficiali degli stessi enti. Con l’obiettivo di raccontare i primi risultati dei nuovi manager, che hanno superato il guado di metà mandato e sono in attesa della sentenza del Consiglio di Stato - prevista il 26 ottobre - sulla procedura di selezione internazionale contestata a maggio scorso dal Tar.

«La polemica sugli stranieri al comando, intanto, è stata del tutto inutile. Nell’arte non esistono nazionalità, ma competenze». Claudio Strinati è stato uno dei soprintendenti-simbolo di Roma, curatore di alcune delle mostre italiane di maggior successo nel mondo.  Da osservatore esterno, difende l’impianto della riforma Franceschini, sperando sia ancora in una fase transitoria, perché «a oggi gli obiettivi sono stati sbilanciati sulla valorizzazione, intesa solo come attrattiva, cioè aumento dei biglietti. Mentre i musei restano centri di cultura. Tutela, ricerca e valorizzazione devono tornare a camminare insieme». È l’auspicio anche di Pierluigi Sacco, uno dei più stimati economisti europei della cultura. Che dice: «non sono affatto d’accordo con l’enfasi che viene data ai numeri di visitatori». Bisogna riuscire a valutare la qualità di queste esperienze, non solo la quantità. A capire cosa resta e resterà nelle persone».

Il punto, insomma, non è solo quanto si incassa. «Parlare di gallerie è diventato di moda. È positivo. Ma non dobbiamo confondere la spettacolarizzazione con la possibilità di influenzare la società», aggiunge Tiziana Maffei, presidente nazionale di Icom, International Council of Museums: «Dobbiamo pensare alla crescita della comunità. E non solo al turismo. Ricordiamoci che sette italiani su dieci non sono mai entrati in un museo». E sì che ne esistono cinquemila: «Un’infrastruttura culturale e sociale da considerare in modo unitario», oltre la voglia di grandeur dei singoli istituti. «È il perno della formazione dopo le scuole dell’obbligo», conclude la studiosa.

Queste le premesse. Ma da dove partire per valutare la situazione? Da uno shock, come quello prodotto da Cristiana Collu, che ha segnato il suo arrivo alla Galleria d’arte moderna di Roma rivoluzionandone gli allestimenti, slegando opere e sale dalla scansione cronologica? «Sono critico su molti punti ma ammiro il coraggio della sua decisione. Crea cortocircuiti mentali», riflette Strinati: «E si può contestare, ma è di sicuro una scelta audace, gestionale, amministrativa e culturale al tempo stesso. Che è riuscita a scatenare discussioni elevate». Il dibattito continua a coinvolgere chiunque attraversi la Galleria.

Ma la rivoluzione ha avuto ovviamente anche un costo: per “Time is out of joint” (il nome del nuovo allestimento) sono serviti 718 mila euro solo per riorganizzare le strutture. Nello stesso periodo, grazie a un finanziamento nazionale, la dirigente è riuscita anche a espandere la collezione permanente. Acquistando opere di Paolo Gioli, Michele Zaza, Giuseppe Chiari e altri per 173 mila euro. Oltre che sostenendo la realizzazione di alcune nuove sculture. Servono coraggio, e cassa, insomma. Possibilità su cui non tutti hanno potuto contare: al Bargello di Firenze il nuovo direttore ha dovuto sborsare 125 mila euro di arretrati. Le tasse sui rifiuti non erano mai state pagate.

E se gli shock possono riportare al centro del dibattito il museo, «l’istituzione pubblica ha il dovere di riconoscere la massima cura al patrimonio», dice Maffei: «i soprintendenti erano sopraffatti dalla custodia. Ma il vero tema resta la manutenzione». Servono certezze. Se diversi istituti così hanno tagliato proprio sulla manutenzione ordinaria, quest’anno Eike Schmidt agli Uffizi ha deciso di investire al contrario: e negli obiettivi strategici del suo mandato nella teca del Rinascimento ha individuato come priorità la sicurezza e la conservazione.

«Restauri di singole opere e attività di studio e valorizzazione come mostre e pubblicazioni restano irrinunciabili. Ma devono passare in secondo piano in questo momento nell’impegno di risorse», si legge nel bilancio di previsione. Un documento disponibile per la prima volta da Vasari o quasi. È una novità della riforma: l’obbligo a rendicontare e spiegare le spese. Ora che sono autonomi, i vertici devono rispondere delle loro scelte di investimento e sono (anzi sarebbero) costretti a pubblicare resoconti puntuali dell’attività. Sarebbero: perché se la trasparenza è considerata da tutti fondamentale, sui venti istituti autonomi dall’inizio, sette non ancora hanno pubblicato niente.

L’Archeologico di Reggio Calabria non ha nemmeno un sito in cui cercarli, ma solo una pagina Facebook. Altri mettono a disposizione pochi numeri stringati. «Affinché lo Stato diventi efficiente, servono invece dati comparabili», commenta Stefano Cianchi, presidente di Civicum, l’associazione che ha promosso con il ministero i «rendiconti integrati» di tre enti autonomi e due poli regionali. Permettendo così di sapere, ad esempio, che come nella milanese Brera, la galleria Borghese di Roma prevede di ridurre i fondi per i restauri (da 331 a 80 mila euro). Raddoppiando quelli per mostre e promozione.

Nel piano strategico (che ha presentato) si legge che uno dei primi obiettivi è «produrre mostre a carattere scientifico e studiare e far conoscere le collezioni». In altri casi i rendiconti fanno emergere la necessità di unire i budget, come accade in Puglia con lo “Jatta” di Ruvo, in provincia di Bari, ad esempio: 590 mila euro di margine, serviti a sostenere anche i 33 mila euro di rosso dell’Archeologico di Egnazia-Fasano, che costa un milione di euro solo di stipendi.

«Ogni monumento, o pinacoteca, è una realtà a sé, con comunità di riferimento, problemi e possibilità differenti», commenta Annalisa Cicerchia, ricercatore Istat sulla Cultura: «Dobbiamo disabituarci alle risposte standard, valide per tutti. Il ministero deve invece indirizzare le strutture a chiedersi: qual è il nostro pubblico? Cosa vogliamo lasciare a un visitatore?». Per lo storico dell’arte Philippe Daverio, «il museo dev’essere una teca in cui la comunità si riconosce e partecipa». Sulla moda delle visite e i ritornelli sul boom di ingressi il critico ribatte alle osservazioni dei colleghi: «Chi ha il diritto di decidere cosa rimane? È solo un bene che aumentino i visitatori. Idee come la notte dei musei», che realizzai a Milano già trenta anni fa, «sono un successo». Anche per questo difende il new deal di Brera dalle osservazioni mosse, fra gli altri, anche dall’ex direttore generale: «James Bradburne sta ravvivando il rapporto con la città», dice.

Riconnettere le sale alle strade, ai loro cittadini, è un leitmotiv dei nuovi manager. Lo ha seguito Sylvain Bellenger riaprendo i giardini della Reggia di Capodimonte. O Paolo Giulierini proponendo all’Archeologico di Napoli spettacoli serali rivolti ai residenti. Se ne parla, del cambiamento. In città e sul web: un videogioco realizzato dal museo con una startup di Pisa, “Father and son”, ha avuto oltre 900 mila download e 11 mila recensioni positive dall’India all’Italia agli Stati Uniti, diventando un caso studio internazionale: «Stiamo dando una scossa», racconta entusiasta Ludovico Solima, il professore che l’ha ideato.

«Le esperienze più interessanti sono ora al Sud», riflette Pierluigi Sacco pensando alla Campania e a «Taranto, dove c’è nuova fiducia e si è aperto un dialogo fra il territorio e la collezione». La direttrice, Eva degli Innocenti non si muove praticamente mai dalla sede. Non ha alternative: ha dovuto chiedere in prestito un funzionario anche solo per redigere il bilancio. Quello di Taranto è infatti un archeologico senza archeologi, né contabili, con 41 dipendenti su 89 previsti in organico. E gli extra costano: quest’anno gli Uffizi hanno dovuto sborsare 97 mila euro per garantire l’apertura al pubblico di Botticelli in quattro lunedì festivi.

Come sempre quando si tratta di pubblica amministrazione, si getta la croce sulla mancanza di personale. Ma sui musei autonomi si stanno concentrando attenzioni e risorse. «Ed è fondamentale questo si traduca in occupazione. Abbiamo una sfida generazionale e tecnica, di competenze e prospettive, a cui rispondere», dice Antonio Lampis, da poche settimane neo direttore generale dei Musei.

Anche se si muove per il centro di Roma con una bicicletta pieghevole ed è appena sbarcato nella Capitale dopo un decennio alle politiche culturali a Bolzano, assicura: «Non sono un alieno. Conosco la macchina. So come resistere alla mostruosa burocrazia interna dello Stato. E realizzare gli obiettivi necessari al nostro sistema museale». Quali, allora? «Dobbiamo coordinare di più le azioni. Ripartire dalla rete». E verso quali obiettivi, culturali? «Il primo è la partecipazione: i musei devono includere. Servono a combattere la disuguaglianza. A riequilibrare le carte fra chi ha e chi non ha avuto il privilegio di studiare. Devono rivolgersi anche ai quartieri popolari. A Milano come al Sud». Il secondo obiettivo è l’occupazione. Il terzo: «Trasmettere il valore del Paese Italia». Andando ben oltre i biglietti strappati.