Il regno di Mbs e l’Occidente sono quasi amici fra armi, aziende, calcio e petrodollari. Grazie a lobbisti e politici embedded. Ma gli sforzi del paese del Golfo nel campo dei diritti umani rimangono in larga parte solo propaganda

Sono con noi e un po’ contro di noi, riformisti nelle intenzioni ma stretti alla leva formidabile del petrodollaro. Soprattutto sono sempre più vicini. I principi e i finanzieri dell’oligarchia saudita guidata dal reggente Mohammed bin Salman, in breve Mbs, hanno scatenato un’offensiva economica, diplomatica, di immagine che ha l’Italia fra i suoi tasselli principali. Da giugno il governo di Giorgia Meloni ha rimosso i limiti alle armi tricolori vendute alla dinastia al Saud che rivaleggia con l’Italia nella corsa all’Expo del 2030. Il duello fra Roma e Riad per l’esposizione universale, che si concluderà con il verdetto previsto alla fine di novembre, non invertirà una tendenza alla collaborazione segnata da un interscambio 2022 a quota 11,5 miliardi di euro (+41 per cento rispetto al 2021).

 

Al tavolo delle trattative commerciali si è seduto, in maggio, il ministro del made in Italy Adolfo Urso, noto per i suoi rapporti con il nemico numero uno di Riad, l’Iran. Urso ha coinvolto il Saudi italian business council e Invimit, la sgr pubblica guidata da Giovanna Della Posta.

 

Frequenta da tempo la monarchia araba Luigi Di Maio che un anno fa da ministro degli esteri dichiarò: «L’Italia è pronta a sostenere le significative riforme sociali del regno». Di Maio è dal primo giugno rappresentante dell’Ue nei paesi del Golfo arabico su designazione congiunta di Mario Draghi, Josep Borrell e, più sotterraneamente, del potentissimo Claudio Descalzi, numero uno riconfermato dell’Eni, che con l’Arabia saudita è in affari da oltre sessant’anni.

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L’ex premier Matteo Renzi è da considerarsi ormai embedded. Il senatore di Italia viva è l’unico europeo fra gli otto fiduciari del think tank saudita Fii institute guidato da Yasir al Rumayyan, braccio destro di Mbs nel business. Al Rumayyan presiede il colosso petrolifero Saudi Aramco, quotato a dicembre del 2019 per quasi 30 miliardi di dollari, e il fondo sovrano Pif che in Italia ha appena investito 419 milioni di euro nei cantieri nautici Azimut-Benetti, dopo avere comprato due anni fa una quota delle auto di lusso della modenese Pagani. È praticamente chiusa la trattativa per il 49 per cento del gruppo Forte hotels, valutato 1,3 miliardi di euro.

 

Al Rumayyan, che attraverso Pif gestisce beni per 650 miliardi di dollari comprese quote in Blackrock, Microsoft, Accor, Huber, Jp Morgan e Softbank, è anche alla guida del golf mondiale e del Newcastle united, club calcistico di Premier league che ha acquistato dal Milan il centrocampista Sandro Tonali per 80 milioni di euro.

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Non poteva mancare il football nell’operazione simpatia, o antipatia, secondo i punti di vista del tifoso. Le magnifiche quattro del pallone saudita (al Ittihad e al Ahli di Gedda, al Hilal e al Nasr di Riad) hanno rastrellato campioni non necessariamente a fine carriera come Karim Benzéma, Kalidou Koulibaly, N’Golo Kanté. Il frontman è il portoghese Cristiano Ronaldo, attirato da un contratto senza senso: 190 milioni di dollari annui fino al 2025, più un secondo quinquennio come ambasciatore della candidatura saudita ai mondiali di calcio del 2030. Per lui si parla di oltre 1 miliardo in totale, altro che Russell Crowe ingaggiato dal Campidoglio per sostenere la candidatura di Roma all’Expo.

 

Non sono mancati i paragoni con altre fughe in avanti del calcio a fini di propaganda. Il numero uno dell’Uefa Aleksander Ceferin ha fatto riferimento alla Cina, che è uno dei nuovi alleati di Mbs da quando ha sostenuto la travagliata ipo di Saudi Aramco acquistando il 5 per cento delle azioni collocate. Dopo l’ingaggio dell’ex centravanti azzurro Graziano Pellè per 15 milioni nel 2016, la Repubblica popolare ha chiuso i rubinetti. Nel 2021 ha fatto clamore la liquidazione del Suning Jiangsu della famiglia Zhang, tuttora proprietaria dell’Inter.

 

Mentre si dedica alla diplomazia diffusa del calcio, il Regno continua a fare leva sulle fonti energetiche, che hanno trascinato il piccolo potere locale dei Saud sul proscenio del G20 in tempi storici relativamente brevi. L’associazione dei produttori petroliferi Opec, costituita a Bagdad il 14 settembre 1960 e tradizionalmente dominata da Riad, si è trasformata in Opec+ alla fine del 2016 con l’ingresso di altre dieci nazioni guidate dalla Russia.

 

Lo scorso aprile, su pressione congiunta del ministro saudita dell’energia Abdulaziz bin Salman, fratellastro di Mbs maggiore di 25 anni, e del vicepremier russo Aleksander Novak, l’associazione ha votato un taglio a sorpresa della produzione. Il greggio, risalito fino a circa 90 dollari, e una nuova riduzione dal prossimo luglio da 10 a 9 milioni barili al giorno hanno scontentato l’alleato Usa. Il presidente Joe Biden da tempo mal sopporta il multipolarismo di Mbs, ribattezzato “the new Nasser” in memoria del leader egiziano che abbatté la monarchia e nazionalizzò il canale di Suez.

 

Eppure Mbs, figlio di re Salman bin Abdulaziz, 87 anni, rimane un tassello chiave per la stabilità dell’area. Solo l’anno scorso il Pif ha dotato di 24 miliardi di dollari sei veicoli di investimento destinati a Egitto, Oman, Giordania, Iraq, Bahrein e al Sudan sconvolto dalla guerra civile, mentre pare destinato a crescere il ruolo del Regno nella Parliamentary assembly of Mediterranean, l’organizzazione internazionale con sede a Napoli.

 

Superata la stagnazione economica, l’Arabia è tornata a spendere alla grande, confortata da un pil 2022 in crescita dell’8,7 per cento. Nessuno fra i paesi del G20 ha fatto meglio. Sul fronte interno c’è il rilancio del turismo e il progetto della megalopoli Neom, in costruzione per 500 miliardi di dollari nella provincia settentrionale di Tabuk, affacciata sul Mar Rosso.

 

Sul fronte esterno, dopo il superamento della crisi 2017-2021 con i vicini del Golfo, il Regno sta tentando la strada di uno storico accordo di normalizzazione con Israele, già firmato dagli Emirati e dal Bahrein tre anni fa.

 

Nell’area mediorientale rimane vicina al potere saudita la Giordania governata dagli hashemiti, un’antica famiglia di mercanti con origine e interessi economici nelle città sacre all’Islam di Mecca e Medina. Il primo giugno 2023 si è celebrato il matrimonio del principe della corona giordana, Hussein bin Abdallah, con Rajwa al Saif, figlia di un imprenditore edile saudita e di una cugina di re Salman.

 

Insieme ai reali e al jet set internazionale, al matrimonio di Amman hanno partecipato la signora Agnese Landini e il suo consorte. Il senatore Renzi difficilmente mancherà alla settima edizione del Fii, intitolata The new compass (la nuova bussola), che si terrà a Riad dal 24 al 26 ottobre.

 

Il programma di Fii7 esprime forte preoccupazione per il potere del popolo «che è in declino da 96 democrazie elettorali nel 2016 a 90 nel 2022 con metà dei governi democratici in ritirata». Che cosa si intenda per ritirata (in retreat, nel testo inglese dalle colorature renziane) è difficile dire. Ma la predica non arriva precisamente dal pulpito più qualificato.

 

Al netto della pretesa irrealistica che i paesi dell’ex terzo mondo realizzino in pochi anni i progressi fatti dall’Europa nel corso dei secoli, ci sono aree del Rinascimento saudita dove i passi avanti appaiono solo negli annunci.

 

Nelle classifiche delle ong internazionali su diritti umani e libertà di stampa il Regno non abbandona gli ultimi posti. Il World press freedom index 2023 di Réporters sans frontières ha retrocesso il paese di Mbs dal 166° al 170° posto. Solo altre dieci nazioni fanno peggio. Il Report 2023 di Human rights watch (Hrw) sintetizza: «Le autorità hanno arrestato pacifici dissidenti, intellettuali e attivisti dei diritti umani e hanno emesso condanne decennali per post sui social. Rimangono pervasivi gli abusi in carcere, compresi maltrattamenti e torture, detenzioni arbitrarie e confische di beni senza procedimenti legali chiari. Le riforme annunciate sono minate severamente dalla diffusa repressione».

 

Amnesty international ha puntato l’indice sulla ripresa delle esecuzioni capitali da 65 nel 2021 a 196 nel 2022. Il 2023 è già segnato da due casi terrificanti. In un solo giorno, il 12 marzo, sono stati messi a morte 81 detenuti. La metà veniva dalla minoranza sciita, bersagliata dalle accuse di terrorismo e dai presunti legami di fede con l’arcinemico iraniano. Il 16 giugno Amnesty ha lanciato l’allarme sulla condanna alla decapitazione di sette cittadini. Al tempo dei fatti erano tutti minorenni. Uno di loro aveva dodici anni. Nel gruppo c’è un solo omicida mentre gli altri hanno partecipato a forme di protesta. Intanto proseguono i sit-in davanti all’ambasciata del Regno a Istanbul, dove nell’ottobre 2018 è stato assassinato il giornalista saudita di origine turca Jamal Khashoggi, critico con il regime. Per la Cia il mandante è Mbs.

 

Nel campo dei diritti civili, il principe ereditario ha dichiarato benvenuti i turisti Lgbtq+. I locali rischiano carcere e frustate. In quanto alle donne, la fine della segregazione di genere e il permesso di guidare non bastano a intaccare il maschilismo della tradizione beduina. Di aperture democratiche neanche a parlarne.

 

Mbs ha mostrato il pugno di ferro fin dalla sua nomina a erede al trono, il 21 giugno 2017, al posto del successore designato in precedenza, Mohammed bin Nayef, sopravvissuto a quattro tentativi di omicidio. Nella visione del principe la corte reale, con le sue centinaia di nobili, fratellastri e cugini, è un covo di serpenti e di corrotti nullafacenti. Così, dopo essere stato il primo monarca saudita in carica a visitare la Russia nell’ottobre 2017, Mbs si è allineato alle best practices di governo di Vladimir Putin. Il 4 novembre del 2017 l’hotel Ritz-Carlton di Riad è diventato una prigione per decine di oligarchi. Il lusso alberghiero ha fatto da sfondo a brutalità e torture. Il più noto dei fermati, il principe Al Walid bin Talal bin Abdulaziz, parente di Mbs, ha accettato come tutti gli altri il patto leonino e ha ceduto allo Stato parte delle ricchezze accumulate nel suo gruppo Kingdom holding.

 

Dopo avere superato il trauma, ed essere sceso dal numero 7 al 117 nella classifica mondiale dei miliardari, al Walid ha accettato di collaborare con l’onnipotente procugino. Fra i suoi ultimi investimenti, oltre a 1,9 miliardi piazzati su Twitter dopo l’acquisizione di Elon Musk, grande amico di Mbs, Kingdom holding ha impegnato 500 milioni di dollari nei tre giganti russi dell’energia Gazprom, Rosneft e Lukoil, alla viglia dell’invasione dell’Ucraina.

 

Intanto i repulisti sono andati avanti almeno fino al marzo 2020, quando un fratellastro di re Salman, il principe Ahmed, è stato arrestato con l’accusa di tramare il rovesciamento del nipote. Ahmed era sfuggito alla retata del 2017 perché si trovava a Londra. Ma il destino di complottisti e dissidenti nel regno di Mbs è comunque segnato.