In un sistema di spinte e controspinte, il modello di democrazia dell’alternanza si piega alla necessità di accontentare tutti. Una chimera. Il risultato è lo stallo che rende improduttiva qualunque azione di governo

Imboccata ormai quasi trent’anni fa la strada della democrazia dell’alternanza – con le riforme elettorali di forte impronta maggioritaria e l’elezione diretta del sindaco e del presidente della Regione – il sistema Italia non ha perso l’abitudine e il gusto per la contraddizione. Anzi.

In un Paese lacerato e diviso su troppe cose, si cerca da decenni l’impossibile convivenza fra una «democrazia decidente» e la pulsione verso la soluzione in grado di accontentare tutti, ma proprio tutti. Una chimera, che ha come effetto quello di un impantanamento generale, nel quale alla democrazia decidente (Violante) da anni fa da contraltare, prevalendo, un’ampia situazione di stallo e/o indecisione. Su tanto se non su tutto. Una democrazia sempre indecisa, inconcludente, non è forma di governo, ma piuttosto nemesi, cioè dissolvimento del governo (Zagrebelsky).

Un sistema di spinte e controspinte talvolta innescato e alimentato da dinamiche oblique. Come nei casi in cui una spinta riformista si spiaggia sulle resistenze non già dei diretti controinteressati che si fronteggiano in campo aperto, ma sull’indisponibilità al cambiamento di pezzi del sistema – parti terze, per così dire – a prima apparenza collaterali ma invece essenziali, dal punto di vista strumentale, rispetto alla posta in gioco.

Una democrazia bloccata, impaludata, a qualcosa o a qualcuno giova. Infragilisce, se possibile ancor di più, democrazie già indebolite, generando (e rapidamente bruciando) classi dirigenti esitanti e incerte, così da rendere stabilmente vulnerabile un intero sistema Paese. Esistono almeno due modi differenti di favorire l’impaludamento dell’azione pubblica.

Con riferimento a un primo genere va evidenziata anzitutto l’inclinazione – a livello istituzionale – ad allargare la base della codecisione. È quanto accade, più spesso, nel momento in cui si prevede l’adozione di decreti attuativi di un precetto di legge che, per intuitive ragioni, non può scendere sino ai minimi dettagli. Scatta, in queste ipotesi, un riflesso incondizionato da parte di più amministrazioni centrali a rivendicare, attraverso il metodo della concertazione sul testo, un potere di codecisione. Sennonché, più diventano i codecisori più è improbabile che il decreto attuativo veda davvero la luce. E tuttavia, se il decreto attuativo non viene approvato quel precetto di legge resterà del tutto lettera morta. In buona sostanza, un’ampia base di codecisori significa, più spesso, nessuna decisione.

Ma la stridente contraddizione tra modello (ufficiale) della democrazia dell’alternanza e sistema (sostanziale) della codecisione offre conferma di sé anche nel diverso ambito delle “intese” fra Stato centrale e autonomie. Dalle vicende a impatto territorialmente circoscritto (si pensi alla scelta dei presidenti degli enti parco nazionali, che in oltre un decennio di intese non trovate ha richiesto alfine l’intervento della Corte costituzionale, la quale ha imposto alle due parti pubbliche di svolgere, allo scopo, «reiterate trattative»), sino a quelle a maggiore ricaduta, l’esperienza empirica dimostra anzitutto che è difficile trovarla, nei singoli casi, quest’intesa.

Ma anche che, traducendosi nella attribuzione di un potere di veto a ciascuna delle parti, di certo non appare troppo in sintonia con un modello di democrazia decidente in grado di compiere scelte strategiche in un tempo definito, per poi risponderne appieno davanti agli elettori. Nessuno vince e nessuno perde, insomma. Mai.

Il problema non è tanto se sia meglio la democrazia dell’alternanza o il sistema della codecisione. Il problema sta nel fatto che occorrerebbe evitare contraddizioni endemiche che impaludano tutto, scegliendone uno dei due. Solo in questo modo, facendo cioè chiarezza sul paradigma che intendiamo darci, potremo sapere – senza l’alibi che offre, a tutti, la convivenza con il sistema opposto – quando quello prescelto ha fallito o quando, viceversa, ha avuto successo.

Nell’età dei social, che da un giorno all’altro innalzano agli altari e precipitano nella polvere leaderismi improvvisati ed estemporanei, c’è poi il tema della vetocrazia culturale.

Nella frenetica combinazione di influenzanti e influenzati è l’artefice principale di ambientazioni di contesto nelle quali, nel nostro Paese, celebrazioni solenni coesistono con cedimenti compiaciuti e compiacenti alla cancel culture d’importazione nordamericana, gli inni all’individualismo più sfrenato con dolenti e pensose riflessioni sul cosiddetto inverno demografico (mentre nel silenzio generale l’India sorpassa la Cina nel primato mondiale di abitanti), l’esaltazione del merito e del talento dei singoli (i «capaci e meritevoli» indicati dalla Costituzione) con la loro sistematica mortificazione in concreto (stipendi uguali per tutti per legge, nel settore pubblico), gli aneliti vibrati al superamento di uno stato di cose in cui si decide poco e male con la malcelata simpatia, venata di una punta di nostalgico romanticismo, per quelle maggiori forme di dissenso che si fanno, in concreto, ostentata pulsione alla disobbedienza. E molto altro ancora.

Può essere che per un Paese diviso da lacerazioni profonde e crescenti ciò sia il minore dei mali, ma è dubitabile che la tensione costante tra il voler essere una cosa e il suo contrario – attraverso veti incrociati – ci possa dare un futuro stabile e migliore.