La vittoria contro Marine Le Pen è una buona notizia, ma i segnali negativi sono tanti: astensionismo in crescita, populismi forti, assenza di partiti strutturati. Tutti segnali che allarmano anche qui da noi

Emmanuel Macron ha (fortunatamente) vinto le elezioni presidenziali con il 58,55% dei voti. Un esito che corrisponde anche alla “messa in sicurezza” dell’Unione europea, dal momento che la prevalenza di Marine Le Pen avrebbe comportato un forte rilancio della spinta propulsiva dei sovranismi e la direzione di un Paese chiave da parte di una “figlia (e debitrice, in senso anche finanziario) di Putin”.

 

Tuttavia, il presidente riconfermato non può dormire sonni tranquilli alla vigilia delle elezioni legislative di giugno, che non promettono nulla di buono. Di fatto, è scattata nuovamente (ma assai più stancamente) la valvola di sicurezza del “fronte repubblicano”, eppure l’ennesima avanzata del lepenismo costituisce un dato di realtà non occultabile (e inquietante). E, soprattutto, con il 28,01% si è registrato il livello più alto di astensione dal ballottaggio del 1969; un segnale alquanto marcato di quella stanchezza e di quel malessere diffuso che contraddistingue da parecchio le democrazie liberali. Ad astenersi, infatti, è stata soprattutto la Francia periferica, quella «des gens ordinaires» (la gente comune), come la chiama il geografo Christophe Guilly, da cui sono uscite le jacqueries dei gilet gialli. Quella che, a sinistra, ha votato per il leader della France Insoumise, e premia massicciamente i populismi di destra.

 

Così come, guardando al di qua delle Alpi, monta, da una parte, la destra-destra di Fratelli d’Italia e, dall’altra, un’area - in cerca di rappresentanza - riconducibile alle “50 sfumature” rossobrune del binomio novaxismo-putinismo. E cresce costantemente l’astensionismo, segnale inequivocabile di un disagio e di un deficit di legittimazione, perché se un suo tasso elevato viene considerato nelle nazioni anglosassoni alla stregua di un dato fisiologico, la percezione in materia risulta assai più problematica nell’Europa continentale. Con l’ulteriore paradosso che, da qualche tempo, ad avvantaggiarsi dell’astensione sotto il profilo dei risultati elettorali sono spesso proprio il centrosinistra e i progressisti.

 

Al proposito, la Francia si sta rivelando un caso paradigmatico, perché il macronismo, dopo avere terremotato le tradizionali forze di sistema di destra e sinistra, non è riuscito a stabilizzare la propria offerta politico-culturale, né (in questa caso, anche per scelta) quella partitica e organizzativa. E qui sta un nodo essenziale, pur essendo necessaria la consapevolezza del fatto che la diminuzione del tasso di partecipazione elettorale si rivela figlia di dinamiche socio-culturali ormai di lungo periodo, e che una certa quota dell’opinione pubblica non colloca l’esercizio del diritto di voto in cima alla propria scala delle priorità, preferendo dedicare quel poco tempo necessario ad andare al seggio ad altre attività ritenute più gratificanti sul piano privato.

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E, nondimeno, l’astensione è un sintomo di disaffezione e disimpegno rispetto alla vita pubblica, e finisce inevitabilmente per generare quesiti sull’effettiva legittimazione di chi viene eletto. Urne che si svuotano incentivano ulteriormente le derive della radicalizzazione senza sbocchi costruttivi di certi settori della società: e, perciò, bisognerebbe agire sul “lato dell’offerta” per renderla più soddisfacente. Con partiti (e leader) meno intermittenti e visioni non di breve periodo, né - men che meno - intercambiabili o superficiali, verosimilmente aumenterebbe in maniera significativa il numero di coloro che si recano alle urne, e la stanchezza delle liberaldemocrazie riceverebbe una cospicua dose di “sali minerali politici”.