La seconda inchiesta sui bianconeri si è chiusa con un patteggiamento all’acqua di rose che accontenta tutti. Così il sistema salva se stesso e promette l’ennesima riforma. Ma l’Uefa non intende chiudere il dossier e minaccia epurazioni

Malfunzionante, inquinato, il sistema calcio lotta per superare l’ennesima crisi con una sola certezza: non esiste vita al di fuori del sistema. E chi guida il sistema è tendenzialmente insostituibile. Per fortuna l’Italia è un Paese fondato sulle riforme, come se fosse un cambio di formula di gioco, un 3-5-2 invece di un 4-3-3, a fare la differenza. Come se i padroni del sistema che fallisce fossero i più adatti a riformarlo.

 

Nel frattempo, lo sport e il calcio in particolare sono entrati nel mondo dell’impresa neoliberista. L’Italia è terra di conquista per investitori stranieri che pagano e pretendono la certezza del diritto. Di fronte ai nuovi padroni, i vecchi satrapi del sistema hanno esibito un anno di trattativa Stato-Calcio (Juve), chiusa alla bell’e meglio salvo ulteriori interventi della magistratura ordinaria che riprenderà le udienze del processo Prisma in ottobre. L’eccezione è Andrea Agnelli, che sconta la hybris antisistema della Superlega e andrà a giudizio.

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Alla fine, vincono e perdono un po’ tutti. Il procuratore federale Giuseppe Chinè, che si è dovuto sorbire mesi di minacce di morte famiglia inclusa, si toglie l’etichetta di persecutore del club di casa Agnelli. La Juve rinuncia a circa 80 milioni di euro della prossima Champions League ma evita danni sportivi sulla stagione 2023-24. La società bianconera è stata il mezzo e anche il fine di una trattativa fra lo Stato e il Calcio. Secondo le fonti de L’Espresso, il negoziato è servito a una sorta di amnistia collettiva del sistema. Ha colpito di striscio un colpevole per salvarne cento, fra le quali il Napoli, l’Atalanta, il Sassuolo, la Lazio, la Roma, la Samp.

 

E quando il sistema va in autoprotezione e ricaccia qualsiasi tentativo di progresso o di trasparenza, la regia è del Coni di Giovanni Malagò, che da dieci anni perpetua sé stesso e i suoi metodi, affettati con gli amici, affilati con i nemici.

 

Il cammino processuale sportivo dei bianconeri è andato a due velocità. Era spedito il ritmo del Procuratore Generale Chiné e dei Giudici Federali di Appello. Era lento quello del collegio di garanzia Coni che dipende da Malagò e che ha rimandato la sentenza in Appello per la riformulazione e lo sconto da 15 a 10 punti di penalizzazione. In quel momento si è sviluppato il negoziato che ha contemplato un “prendi due paghi uno” per i due tronconi d’inchiesta cioè le plusvalenze fittizie e la manovra stipendi. Il patteggiamento anticipato sul secondo filone, proprio per non superare il 30 giugno e invadere la stagione ventura, rientra in questo schema. Scordarsi del passato con pochi feriti. Un esito non sgradito a John Elkann che, seppur colpito da un nuovo scandalo dopo la retrocessione per Calciopoli del 2006, ha estromesso il cugino Andrea Agnelli e adesso pianifica una drastica riduzione dei costi per tamponare l’indebitamento finanziario netto di 330 milioni di euro e la perdita di bilancio in arrivo che si stima intorno ai 120 milioni di euro.

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Secondo un autorevole esponente del governo Meloni, la regia di Malagò con il sostegno tattico del presidente federale Gabriele Gravina, ha peccato di zelo. La Juventus era già destinata a un Daspo di coppa firmato dalla giustizia Uefa. Le dinamiche interne alla Federcalcio hanno prodotto questa soluzione contorta, ma comunque soddisfacente per i presidenti-reggenti del sistema.

 

Un ex dirigente Figc e Uefa spiega che la palpitante evoluzione giudiziaria degli ultimi mesi non era altro che un copione ben recitato dalle istituzioni italiane del pallone, che non potevano ignorare le notizie di reato sportivo affiorate dall’indagine penale Prisma, ma che non avevano intenzione di far precipitare il campionato. Tant’è che al solo invocare di una riforma della giustizia sportiva da parte dei ministri Giancarlo Giorgetti (Tesoro) e Andrea Abodi (Sport), la Figc di Gravina e molto di più il Coni di Malagò hanno reagito rivendicando l’inviolabile autonomia delle istituzioni sportive, soprattutto nel campo della giustizia.

 

Il feticcio dell’indipendenza del sistema esprime il meglio, o il peggio, di sé quando pretende di mettersi al di sopra delle leggi ordinarie dello Stato in base alla legge non scritta che il potere di dirigenti e presidenti arriva dai tifosi, dunque dal popolo senza mediazioni di potere legislativo e al di sopra dei dettami del potere giudiziario.

 

«Chi gode dell’autonomia», dice Abodi a L’Espresso, «deve avere un supremo rispetto delle cose che succedono. La cronaca ci offre spunti di un sistema che ha bisogno di fare qualche riflessione. Sono certo che avverrà nei modi giusti. Noi faremo tutto quello che ci è consentito di fare, non un centimetro di più, non uno di meno». Il whatever it takes del ministro è messo a dura prova dall’indisciplina di chi investe in un settore dell’entertainement con l’idea, non del tutto infondata, che il calcio offra un salvacondotto per le magagne personali.

 

Fra le cose che sono successe, per usare l’espressione di Abodi, ci sono due vicende ai limiti del surreale che hanno tenuto banco pur essendo in secondo piano rispetto all’evidenza mediatica della Juventus, il club sportivo con il maggiore numero di tifosi in Italia.

 

La Sampdoria, retrocessa da ultima classificata in serie A con settimane di anticipo, è rimasta fino alla fine della stagione in ostaggio del suo proprietario Massimo Ferrero. Con un passato ricco di reati societari e problemi giudiziari, Ferrero è riuscito nel capolavoro di tenere le redini dei blucerchiati anche dopo l’arresto del dicembre 2021. Quando sembrava pronto a cedere la maggioranza della società ad Andrea Radrizzani, imprenditore cresciuto in Media Partners come il compianto Marco Bogarelli e lo stesso ministro Abodi, Ferrero ha tentato un’ultima resistenza forse allettato dall’anticipo del 40 per cento del paracadute finanziario spettante a chi va in B. Nel caso della Samp sono 10 milioni di euro di nuova liquidità che dovrebbero servire a risanare il club non a premiare chi lo ha portato al dissesto.

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In quanto a premi, il neoproprietario della Reggina Felice Saladini ha rischiato di essere espulso dal sistema per avere sottratto la società calabrese a un fallimento certo servendosi di una legge dello Stato, il decreto Salva Imprese, ed è stata penalizzata con cinque punti per i mancati pagamenti. Il ricorso alla legge ordinaria ha scatenato gli organi della Figc che hanno legiferato in modo da rendere impossibile che altre società facciano lo stesso. In particolare, è stato imposto il divieto di operare sul calciomercato.

 

«Il problema», dice il presidente della Reggina, l’ex prefetto Marcello Cardona, «è che oggi i giudici sportivi sono nominati dalle federazioni. Non si tratta di discuterne l’autorevolezza di chi giudica, consiglieri di Stato o magistrati contabili, ma mancano i presupposti dell’autonomia, che ci sarebbe se il Coni si occupasse della giustizia sportiva fin dai primi due gradi di giudizio». Nel frattempo, il processo sportivo ha procurato a Saladini qualche danno collaterale. Il titolo della sua società Meglioquesto, quotata al mercato Euronext growth, ha una performance negli ultimi sei mesi di -55 per cento.

 

Come accade in tutte le attività economiche, ci si lamenta che il calcio mette in fuga gli investitori e che bisogna mettere mano a una riforma Cartabia anche nello sport. Già fatto, in verità.

 

«Il Coni, in collaborazione con la Federcalcio, procederà per fare una vera e propria riforma della giustizia sportiva perché evidentemente non ci va di avere una situazione temporanea e poi doverne aprire un'altra. Procederemo direttamente a un discorso definitivo che pensiamo sia vincente». Sono parole di Malagò datate 16 aprile 2013. Dieci anni fa. Nel dicembre successivo la riforma è stata approvata col contributo del professor Giulio Napolitano, ma qualche difetto si è notato subito.

 

Già nel 2018 il Commissario Federale Roberto Fabbricini, segretario generale del Coni inviato in Figc da Malagò dopo le dimissioni di Carlo Tavecchio, s’impantanò con le iscrizioni e i ripescaggi al torneo di serie B. Allora il leghista Giorgetti era sottosegretario alla presidenza del Consiglio con la delega allo Sport e disegnò una nuova riforma della giustizia per interrompere l’influenza dei dirigenti di una federazione sui giudici nominati, cioè recidere il legame inopportuno fra il controllato e il controllore con un semplice sorteggio e reclutando esperti di ogni tipo, meglio se non unicamente consiglieri o avvocati di Stato. Il piano fu boicottato e qualche settimana fa il ministro dell’Economia tifoso del Southampton, appena retrocesso dalla Premier League, ha ipotizzato di sequestrare lo stadio alla Juve anziché toglierle punti in classifica.

 

Oggi Malagò si dice convinto che il problema della giustizia sia una questione di ritardo che si accumula: «Serve celerità nei provvedimenti». Il difetto è invece nelle regole, nei codici e in coloro che le devono far rispettare, come sostiene anche Abodi che non vuole assistere a un’altra occasione mancata e fa sapere di avere chiesto ai suoi funzionari di studiare i confini giuridici che disciplinano il rapporto fra sport e governo, così da ottenere i criteri per potere emanare un atto di indirizzo sulla riforma della giustizia sportiva. Sarà un documento ufficiale che né il Coni né la Figc potranno ignorare perché non possono ignorare lo Stato come se fossero collocati in acque internazionali libere da giurisdizioni riconosciute. Oppure ricordarsi delle leggi solo quando fa comodo.