La testimonianza del regista finanziario dei Benetton, che ha dichiarato di sapere dei vizi del viadotto sul Polcevera dal 2010, ha un impatto enorme sul processo. Otto anni prima del disastro ci sarebbe stato modo di intervenire

È difficile sottovalutare la portata della testimonianza di Gianni Mion, durata quattro ore, al processo per il crollo del viadotto sul Polcevera a Genova il 14 agosto 2018. «Quando lo seppi, mi sarei sparato alla testa», ha detto la mente finanziaria dell’intero gruppo Benetton, e dunque di Autostrade per l’Italia (Aspi) che gestiva il ponte sprofondato con 43 vittime. Ancora più importante è il passaggio in cui Mion ha raccontato in aula di essere informato fin dal 2010 del difetto dell’opera progettata dall’ingegnere Riccardo Morandi. La sua conclusione ai microfoni dei cronisti è di disarmante semplicità: «Nessuno pensava che crollasse».

 

Oltre al rischio di passare da teste a imputato, che la corte sta valutando, Mion ha confermato quanto già emerso prima della fase dibattimentale. Il Morandi di Genova richiedeva un intervento di ristrutturazione radicale, forse persino l’abbattimento. La controprova sta nella pila rimasta in piedi perché riparata nel 1992, quando Autostrade era ancora una società a controllo pubblico.

 

Per spiegare il suo silenzio ingiustificabile, Mion ha evocato la possibilità di perdere il lavoro con annesso stipendio milionario, una lezione da tenere a mente per chi pensa che l’omertà sia etnicamente connotata.

 

La dichiarazione di Mion avrà conseguenze anche sulla posizione processuale della componente tecnica di Aspi e della controllata Spea, società di engineering. L’impatto più diretto riguarda le posizioni di Giovanni Castellucci, ad di Aspi e della subholding Atlantia, e di Riccardo Mollo, al tempo dg di Aspi che, per Mion, avrebbe evocato un’autocertificazione sulla sicurezza del ponte.

 

Prima del Morandi, Castellucci aveva scalato le gerarchie del gruppo di Ponzano Veneto grazie ai dividendi miliardari distribuiti alla famiglia trevigiana che ha ceduto Aspi per 7,9 miliardi di euro due anni fa.

 

La sua posizione difensiva può essere riassunta così.

 

Il Morandi era una baracca che non stava in piedi ereditata dai tempi in cui Autostrade era una società pubblica del gruppo Iri, prima della privatizzazione varata dal governo ulivista nel 1999. I controlli dell’opera spettavano alla Spea e alla struttura tecnica. Le dichiarazioni di Mion chiariscono che i vizi strutturali del Polcevera erano così noti che persino lui, uomo di finanza, ne era venuto a conoscenza. Il suo timore di perdere il posto non lo avrebbe certo portato a dormire dentro una stazione ferroviaria. Ma se avesse parlato, Mion avrebbe perso una posizione di prestigio e di enorme potere alla guida di uno dei maggiori gruppi industriali italiani con danni evidenti per i soci della holding Edizione e dell’intero sistema.

 

La chiusura del Polcevera avrebbe avviato un processo domino su altre strutture simili rompendo il fronte dei concessionari autostradali, un regime di oligopolio a tutti gli effetti, obbligandoli ad aumentare spese e investimenti, a danno dei profitti.

 

Il processo genovese non ha per esempio impedito al gruppo Toto, gestore di Strada dei parchi, di assumere Mollo come ad del tracciato fra Lazio e Abruzzo a giugno del 2020. L’operazione non ha avuto gli sviluppi previsti perché l’autorità pubblica ha ristatalizzato la concessione e ha affidato il rinnovamento del percorso compromesso dal terremoto dell’Aquila all’Anas del gruppo Fs.

 

All’inizio di maggio Mollo e Castellucci hanno incassato una richiesta di condanna in appello davanti al tribunale di Napoli per il disastro del viadotto di Acqualonga (Avellino). Il 18 luglio 2013 un pullman travolse le barriere in un tratto di lavori in corso e precipitò nel vuoto con un bilancio finale di 40 vittime. In primo grado, i dirigenti di Autostrade erano stati assolti.