Anni di clamorose negligenze emerse dalle intercettazioni, nessuna manutenzione al viadotto per 51 anni: la procura chiude le indagini per il crollo che causò la morte di 43 persone. I pm: «Erano a conoscenza del rischio già dal 1990». I familiari: «Si poteva chiudere quel ponte anche solo un mese prima, e salvare chi non c’è più»

La pila 9 di ponte Morandi, quella che il 14 agosto del 2018 si sbriciolò su se stessa trascinando tra le macerie 43 vite innocenti, prima del giorno del disastro non aveva ricevuto «il benché minimo intervento manutentivo di rinforzo». Neanche un giorno di manutenzione in 51 anni, dalla mattinata dell’inaugurazione del viadotto, nel 1967, al mattino che fece puntare su Genova gli occhi sconvolti del mondo. È una delle tante, sconvolgenti verità emerse dalle indagini preliminari del processo sul crollo del ponte sul fiume Polcevera, concluse questa settimana dopo due incidenti probatori e due anni e otto mesi di lavoro. Uno «sforzo enorme», dicono dalla Procura genovese, finito oggi - in attesa delle richieste di rinvio a giudizio - con la notifica dovuta di fine indagini a 69 persone, più le società Autostrade per l'Italia e Spea. Tra queste dirigenti, tecnici, consulenti coinvolti a vari livelli nella lunga storia di mancate manutenzioni e controlli insufficienti che ha portato il vecchio Morandi a spezzarsi, per i quali i capi di imputazione variano tra il disastro e il crollo dolosi, l’attentato alla sicurezza dei trasporti, l’omissione di cautele per prevenire il disastro, omicidio colposo, falso e pure l’omicidio stradale e lesioni. Frutto di un quadro d’inchiesta che porterà all’inizio del processo «entro l’estate», promette il procuratore capo Francesco Cozzi, e dal quale già emergono rivelazioni preoccupanti.

 

Intrecciata da subito con altri filoni d’indagine, da quello parallelo sui pannelli antirumore fuori norma all'inchiesta sui report truccati sugli altri viadotti, tra gli indagati dell’inchiesta sul crollo del Morandi ci sono oggi società private e lavoratori pubblici, manager e funzionari. Per primi i nomi noti legati ad Autostrade per l’Italia (l'ex amministratore delegato della società Giovanni Castellucci, dietro di lui gli allora numeri due e tre di Aspi: Michele Donferri Mitelli e Sergio Berti), ma anche figure di vertice di Spea (la società delegata al controllo della rete autostradale in tutta Italia per conto di Aspi, nel 2018 guidata da Antonino Galatà) e uomini chiave del ministero delle Infrastrutture, l’unico organo che avrebbe dovuto vigilare (ma non ha fatto, per gli inquirenti) sull’operato della concessionaria che aveva in gestione il viadotto crollato.

Facce diverse di uno stesso mondo che in questi mesi le indagini hanno prima cercato di comprendere, e poi messo nero su bianco su una mole impressionante di atti. Compresa quella consulenza tecnica della Procura, fino ad oggi rimasta segreta, che meglio di ogni altra cosa - parlando di «incosciente dilatazione» dei tempi da parte delle società indagate davanti alle misure in tema di sicurezza - pare spiegare le negligenze all’origine del crollo. 

Se 32 mesi dopo la chiusura delle indagini cristallizzano oggi un passaggio giudiziario formale, a raccontare l'assurdità di una tragedia e le incredibili proporzioni delle possibili colpe che andranno a processo, del resto, basterebbero alcuni dei particolari della vicenda che vengono rivelati oggi. Quel «rischio di crollo per ritardati interventi di manutenzione», con relativa indicazione a «elevare il massimale assicurativo da 100 a 300 milioni di euro» che già nel 2013 - otto anni prima del 14 agosto 2018 - Aspi scriveva nel “Catalogo dei rischi operativi”, un documento di pianificazione interna. Il fatto che già nel 1990, ad esempio, Autostrade Spa avesse certificato che in quella stessa pila destinata a crollare 28 anni più tardi erano ammalorati i trefoli e scoperti due cavi su quattro, nervature fondamentali dell’infrastruttura. 

E poi ancora, la totale «inidoneità a fornire una rappresentazione completa e veritiera dei difetti esistenti» del manuale di sorveglianza e il cosiddetto “catalogo difetti” approvato da Aspi per monitorare il ponte, che - si legge nelle carte della Procura - «erano espressione della filosofia manutentiva praticata dalla società, che prevedeva che il degrado non fosse prevenuto o affrontato e risolto sul nascere, ma fosse lasciato avanzare e progredire». O il fatto che fino al 2008 (e poi dal 2016 al 2018) nessun sistema di monitoraggio strumentale fosse mai stato installato sul viadotto, a parte quello destinato a tenere sotto controllo la pila 11. O il meccanismo con cui Spea - viene spiegato - «sottostimava sistematicamente i difetti che rilevava, attribuendo voti inferiori a quelli previsti dal manuale, in modo da non costringere Aspi a procedere a interventi manutentivi in tempi brevi, mantenendo inalterata, attraverso disinvolte operazioni di "copia-incolla" e contro ogni legge fisica, la descrizione e la valutazione di gravità dei difetti anche per molti anni».

 

Anni e anni di clamorose negligenze, suggerisce la Procura, riassunti alla perfezione da una delle ultime intercettazioni emerse dalle carte. Un messaggio di Whatsapp, inviato da Michele Donferri a Paolo Berti, numeri 2 e 3 di Aspi nel 2018, in cui la verità delle condizioni del Morandi già morente vengono messe in chiaro, senza sconti: «I cavi sono corrosi». Era il 25 giugno di due anni fa, neanche un mese e mezzo prima della tragedia di Genova. Berti aveva scritto a Donferri della proposta di iniettare aria deumidificata per “curare” i cavi del viadotto, una soluzione, a quel punto, già impraticabile. La prova - commenta oggi Egle Possetti, la portavoce del comitato che riunisce i familiari delle 43 vittime del disastro, - «che più mi fa male, che più mi strazia il cuore». 

 

«Oggi sappiamo che si poteva chiudere quel ponte anche solo un mese prima, e salvare chi non c’è più - sospira, lei che sul Polcevera ha perso la sorella, il cognato e due nipoti - Anche solo pochi giorni prima della tragedia, anche solo una persona tra quelle che sapevano che il Morandi fosse marcio, avrebbe potuto evitare quello che è successo. Sarebbe bastato chiuderlo il mattino del 14 agosto, sarebbe bastato solo uno, a uscire dal coro e lanciare l’allarme. Probabilmente il ponte sarebbe venuto giù comunque, ma da solo, senza nessuno sopra. E invece no, le responsabilità sono corali, in tanti sapevano, tolleravano, e questa corresponsabilità così larga è la cosa più inaccettabile. Oggi speriamo solo in una giustizia che ci meritiamo, e in un processo che non abbia tempi troppo lunghi, perché sarebbe l’ennesimo macigno sulla nostra memoria».