Arte e cibernetica
ChatGPT, Italo Calvino aveva previsto tutto
In un convegno del 1967 il grande scrittore aveva profetizzato “l’autonoma letterario”: «Penso a una macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore, di ideare e comporre poesie e romanzi»
«Vi do una notizia: state per diventare obsoleti». È una provocazione iniziare così una lezione al master biennale di giornalismo dell’Ordine e dell’Alma Mater di Bologna, con una classe di trenta millennials che s’affacciano ora alla professione. Ma quale ufficio stampa li assumerà più per stendere un comunicato, quale giornale per scrivere 30 righe su una notizia d’agenzia e Google a portata di dito, quando le stesse operazioni le può fare in un batter d’occhio ChatGPT o un altro dei sistemi e programmi di Intelligenza Artificiale in arrivo?
Loro trenta avranno ancora carte da giocarsi: inchiesta sul campo, consumare le suole, cercare le notizie, cogliere al volo ciò che non stavi cercando e il caso ha messo sulla tua strada, reportage (non per forza all’altro capo del mondo, de Maistre ne scrisse uno strepitoso viaggiando intorno alla sua stanza, dopotutto).
La rivoluzione appena cominciata comporta, per la produzione di testi, un cambio di paradigma paragonabile a Gutenberg: dall’headline di una pubblicità all’articolo di giornale fino al saggio, al racconto, al romanzo.
È capitato tra capo e collo, benché ci si lavorasse da anni. Eppure. L’IA applicata alla scrittura, ChatGPT e le sue sorelle, la sua capacità di elaborazione creativa di testi complessi e persino di costruire un suo stile: sta tutto descritto con precisione e dovizia di dettagli in una conferenza che Italo Calvino tiene nel 1967 in giro per l’Italia e l’Europa, e poi pubblica in “Una pietra sopra” col titolo “Cibernetica e fantasmi”. Lontana la trilogia con “Il barone rampante”, fresco di stampa “Ti con zero”, è affascinato dal linguaggio formale della scienza e dall’“ars combinatoria” del monaco medievale Raimondo Lullo: di lì a poco scriverà “Il castello dei destini incrociati” e “Le città invisibili”, che paiono esercizi di sfrenata fantasia e sono invece costruiti come una macchina regolata, oggi diremmo, da un algoritmo esatto, talora esplicito talaltra nascosto. «L’uomo», lo immaginiamo scandire con la sua voce inframmezzata da pause, «sta cominciando a capire come si smonta e si rimonta la più complicata e la più imprevedibile di tutte le sue macchine: il linguaggio. Avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore, di ideare e comporre poesie e romanzi? Penso a una macchina scrivente che metta in gioco tutti quegli elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti d’umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori. Che cosa sono questi se non altrettanti campi linguistici, di cui possiamo benissimo arrivare a stabilire lessico grammatica sintassi e proprietà permutative?».
“Automa letterario”, la chiama, memore dei settecenteschi automi mobili di Vaucanson. Se dal primo cantastorie delle tribù fino al “nouveau roman” e all’Oulipo di Raymond Queneau (quelli sono gli anni) l’intera narrativa è “processo combinatorio”, immesse le istruzioni la macchina «potrà elaborare sulla pagina una personalità di scrittore spiccata e inconfondibile»: fatto, un test ha documentato che ChatGPT sa raccontare la guerra in Ucraina in modo egregio alla maniera di Hemingway, Fallaci, Sontag e dello stesso Calvino. Le attribuisce non solo capacità di autoapprendimento, il self-learning delle nostre IA, ma un suo stile in evoluzione: «La sua vera vocazione sarebbe il classicismo», ma «nulla ci vieta di prevedere che a un certo punto senta l’insoddisfazione del proprio tradizionalismo e si metta a sconvolgere completamente i propri codici: produrrà avanguardia per sbloccare i propri circuiti intasati da una troppo lunga produzione di classicismo».
Come mai un tono così giulivo invece delle solite lamentazioni degli uomini di lettere? Perché, risponde, più o meno oscuramente ha sempre saputo che le cose stavano così. Che tutte le teorie sull’ispirazione, l’intuizione pura, la voce dei tempi, il rispecchiamento delle strutture sociali, la presa diretta dalla psicologia del profondo non spiegano come si arriva alla pagina scritta, a quella sfilza di righe nere sulla pagina bianca.
La letteratura come lui la conosce è «un’ostinata serie di tentativi di far stare una parola dietro l’altra seguendo certe regole definite. E, nello scrivere, l’io dell’autore si dissolve. Lo scrittore già è macchina scrivente, ossia è tale quando funziona bene». Ciò che l’uomo fa a naso e per scorciatoie, la macchina può fare in modo «sistematico, coscienzioso e velocissimo».
Fine della letteratura? Nient’affatto! È nella lettura che il testo vive, continuamente rinnovato, giudicato, anche demolito. A scomparire sarà «la figura dell’autore, questo personaggio anacronistico, enfant gaté dell’inconsapevolezza, portatore di messaggi, direttore di coscienze, espositore della propria anima alla mostra permanente delle anime».
Qualche dubbio gli viene, se vale la pena costruire una macchina così complicata: ma allora un calcolatore che oggi sta in palmo di mano occupava un intero edificio. E due anni appresso, dopo che il suo testo pubblicato su “Nuova Corrente” ha sollevato un vespaio di polemiche, correggerà lievemente il tiro su “Il Caffè”: «È questa macchina letteraria spastica che agisce attraverso l'autore» (per Gadda l'espressione letteraria è tensione o spasmo poetico) «la vera responsabile dell'opera; ma essa non funzionerebbe senza gli spasmi d'un io immerso in un tempo storico, senza una sua reattività, una sua ilarità convulsa, una sua rabbia da dar la testa contro i muri». L'uomo, forse, non è ancora irrimediabilmente antiquato.