App che generano testi sempre più accattivanti. Corsi di scrittura con l’Ia. E intere biblioteche come materia prima. Le macchine scriveranno libri più belli, più vendibili?

Mentre scrivo, un drone troppo normativo ha ucciso il suo operatore che gli aveva chiesto di non colpire più altri bersagli. Era stato infatti programmato per sterminarli tutti, e rimuovere ogni ostacolo - in questo caso, umano.

 

La notizia, poi smentita dallo stesso pilota responsabile dei test di IA dell’aeronautica Usa (che l’aveva messa ambiguamente in circolo) è quindi già letteratura. E non solo come soggetto alla Azimov, ma come ilaro-sinistra profezia: se a un certo punto il mio “interlocoautore IA” (attenzione, neologismo non contemplato dall’intelligenza artificiale) non tollerando un mio finale incompatibile col plot mi scaricasse una letale scossa sulla tastiera?

 

Ebbene sì. Da quando l’IA è entrata nel campo del romanzificio, su noi scrittori è piombato un allarme confuso, tra il sospetto, il rifiuto sdegnoso e una stuporosa autocompassione. E mentre si moltiplicano sul web gli avvisi per corsi di scrittura con AI, rinfocolando la nostra paura di obsolescenza ed estinzione, la domanda si ripete fissa come su un foglio di Jack in Shining: l’AI farà romanzi più belli, più vendibili, più originali degli umani – il tutto per giunta in pochissimo tempo?

 

Basterà chiedere al Super Cervello: fammi un thriller mixando Simenon e Brancati, vita morbosa di provincia e tipi loschi, basato su un duplice e truce delitto, compiuto da un cane infelice scappato all’alba da una casa di riposo? Attenzione, l’IA non inventa ex novo, ma elabora, assembla, potenzia e agglomera attingendo alla sua infinita memoria. Cioè da quel pozzo senza fondo - Aleph e discarica e nursery stellare - che è Google, serbatoio illimitato delle nostre storie e parole, il nostro inconscio collettivo, anzi connettivo (ehilà, gioco di parole forse non previsto da IA).

 

Tutto era già stato raccontato, con folgorante premonizione, in un romanzo del 2003, “Il generatore di storie” (Minimum Fax 2006) di Philippe Vasset, lettore appassionato, non a caso, di Guy Debord e Jean Baudrillard, ma soprattutto esperto di Intelligence.

Il suo protagonista è un geologo in missione in Africa che trova una brochure con le istruzioni per uno ScriptGenerator, un software avanzatissimo capace di produrre qualsiasi narrazione (dal romanzo al film, alle serie tv) grazie al database che contiene tutti i romanzi nati al mondo sinora. Ne verrà fuori una ricca storia di spionaggio industriale, ma ciò che interessa qui è la finalità espressa dallo ScriptGenerator: disfarsi della figura ingombrante, imprevedibile, costosa ed egocentrica dell’autore, da sostituire semmai, per il lancio e promozione del volume, con un attore o attrice preparati ad hoc, sicuramente più abili e seduttivi nel comunicare.

 

La filosofia di base dello SG è stringente: «Se tutto è stato scritto, filmato e recitato, e se il campo delle storie è sempre quello, riproducibile all’infinito con infinite variazioni, vuol dire che il racconto è finalmente divenuto materia prima. E che dunque la sua raffinazione può essere meccanizzata, assemblata, ricomposta, confezionata, messa in vendita in forma di testi di intrattenimento infallibili».

 

La strategia del software, spiegata nella brochure, è scientifica: un libro, un fumetto per risultare redditizi devono potersi trasformare rapidamente in sceneggiature per film, in gadget, videogiochi o serie televisive, tutto intercambiabile e meglio se interconnesso.

«Oggi il fattore umano è sopravvalutato, e i costi insostenibili. È assurdo destinare - cito ancora - milioni di dollari alla fase della creazione quando questo segmento della produzione può essere vantaggiosamente coperto da un riciclaggio sistematico e intelligente dei duemila anni di racconti sedimentati negli archivi, nelle biblioteche, nelle banche dati».

 

L’azione dello ScriptGenerator consiste cioè nel trasformare la produzione creativa dei contenuti in una lunga raffinazione di materia grezza, attraverso la lavorazione industriale dei materiali, schedati per comodità secondo un criterio di Utilità Narrativa. Dove «il prodotto base non è naturalmente il linguaggio, ma la storia», e la previsione di impatto è legata a un indice di valore specifico: “lo spirito del tempo”.

 

«Il che consentirà - pesco ancora dal romanzo – di sostituire il dispendioso e supposto fiuto degli artisti (da essi inventato per giustificare la loro esistenza) con uno strumento statistico accurato e verificato in tempo reale sul mercato».

 

Quali dunque i moduli di base? Schiacciando forse un occhio alle lezioni americane di Calvino, Vasset attribuisce al Generatore di Storie la predilezione di 4 categorie: duttilità, universalità, semplicità, originalità apparente. Su quest’ “apparenza” è interessante apprendere, dal manualetto di istruzioni, che «l’illusione di novità si ottiene meglio con la miscela degli elementi esistenti che con l’innovazione radicale, per sua natura destabilizzante» (autori umani, qualcosa da aggiungere?).

 

Per rispondere a questi requisiti il software adotta formule multiple e componibili basate su conflitto/fuga, inseguimento/ricerca, premio/punizione. D’altro canto, avete presente il Propp che infliggiamo con gaio sadismo agli allievi delle scuole di scrittura, con il suo schema esatto e implacabile di funzioni in ogni fiaba e fiction tv?

 

Clamorosamente, alla fine, il romanzo si costituisce dichiarandosi «noioso, inutilmente tecnico e interamente scritto col GeneratorStory». Vent’anni fa, quando fu pubblicata, sembrava una storia apocalittica e immaginosa, una parabola estrema. Preveggenza della letteratura ancora immune da IA.

 

Mentre gli esperti sostengono che ChatGPT può dare il suo meglio nei romanzi gialli e rosa, laddove cioè regna la lingua standard (come previsto nel romanzo di Vasset) sono stati intanto pubblicati due romanzi scritti con IA. Il primo (Il Saggiatore, novembre 2022), “Non siamo mai stati sulla terra” è stato composto da un Autore1, cioè OutOmat-B13, versione commerciale di GPT-3 (ultima edizione di OpenAI), e un Autore2 umano, Rocco Tanica, compositore del gruppo Elio e le Storie tese. Più che un romanzo, è uno schiumoso dialogo sul mondo, e lo stesso Autore2 lo ammette: ChatGPT è una specie di cervello secchione e perbenista, che non sconfina mai in scorrettezze, provocazioni o oscenità perché il programma è autocensurante, e piuttosto imita ciò che gli viene sottoposto, essendo un modello di previsione linguistica, con ingenuità - aggiungerei - un po’ gradassa.

 

Spacconeria che intenerisce, peraltro, visto che IA non capisce cosa scrive. La sua super intelligenza simulativa, sul piano della scrittura, è molto più atletica della nostra sul piano di aggregazioni, captazioni e concatenazioni, ma non è libera né capace di debordare come noi. Non può produrre l’indicibile. Né esprimere l’impensabile. E non è questo, il talento del gorgo e del volo, del sottinteso e malinteso, il valore primo di chi produce letteratura?

 

“Death of an author” (titolo indovinato, 100 per cento di origine umana), è invece un giallo composto da tre diversi software – ChatGPT, Sudowrite e Cohere – con la guida di un giornalista, Stephen Marche, che ha detto di essersi ispirato a Margaret Atwood per la scrittrice protagonista uccisa (sic). Nonostante questo, il testo è apparso ai critici “senz’anima” e (giustamente) macchinoso. Quanto alla rapidità dell’esecuzione, è una bufala: le proposte di testo consecutive e innumerevoli di ChatGPT - prolisse, metamorfiche e dunque sempre perfettibili - richiedono un lungo e attento lavoro di editing umano fra selezione, tagli, cuciture. E rimaneggiamenti, manipolazioni – che sono parole, infatti, con le “mani” dentro.

 

Chissà cosa direbbe, quanto alle mani e al gesto, il gran teorico del piacere del testo, Roland Barthes, che vede e pratica la scrittura come una sfida sensoriale, un corpo a corpo con la parola, dove ogni segno è taglio o carezza sul foglio, fregio o macchia, impronta. Colluttazione mistica fra testo e carta, fatta di umori, lacrime e sangue, ebbrezza.

 

Infine, due rispettose domande per la IA. Urge un premio letterario specifico, destinato solo ai vostri libri? E perché mai dovremmo delegare a voi il piacere assoluto, inenarrabile e arcano, di immaginare e scrivere storie, evocare cose inspiegabili con parole mai dette?