Stile e rivoluzione
La lezione di Mary Quant, oltre una minigonna
C’è oggi un capo che incarna emancipazione e libertà con la stessa determinazione? E la moda è ancora trasgressione? Sono gli interrogativi che lascia l’uscita di scena della stilista britannica in un mondo sempre più fluido
E adesso, Mary? A 93 anni avevi ogni diritto di stufarti e uscire di scena, ma che sarà di quella libertà infinita promessa dalle gambe delle ragazze che avevi svelato, con le tue mini e i tuoi hot pants? Cosa resterà, di quelle gonne che meno centimetri contavano più riscrivevano la storia delle donne? Quale abito saprà di nuovo interpretare la rivoluzione con la grazia dello stile di Mary Quant?
«La prima volta che si verificano, le cose hanno una potenza difficile da replicare. Nel caso della minigonna, irripetibile», interviene Simona Segre-Reinach, antropologa culturale e docente di Fashion Studies all’Università di Bologna. «Le gambe delle donne, per la prima volta così in mostra, furono una rivoluzione culturale perché parte di un fenomeno più ampio. C’entravano la pillola anticoncezionale, i collant, il femminismo, la controcultura anni Sessanta. L’“invenzione dei giovani”».
Oggi non è più possibile che un capo incarni questa molteplicità di valori, secondo Segre-Reinach: lo spettro culturale si è fatto molto più complesso. «Nei Sessanta ci affidavamo alla lettura occidentale dei fatti, in fondo era semplice guardare ai fenomeni. Oggi, nel mondo globalizzato, ogni elemento può avere più significati e lo stesso indumento si presta a più interpretazioni. Pensiamo all’ambivalenza del velo islamico: in alcuni Paesi le ragazze lo mettono per sottolineare la loro identità culturale, in altri incarna la repressione sulle donne».
Una considerazione che genera nuove domande. A chi e cosa si ribellano, le nuove generazioni? In un mondo in cui i ragazzi sono più esposti ai miti del K-pop coreano e -forse- alla “modest fashion” (moda pudica) d’ispirazione islamica che alle controculture occidentali, possono esistere simboli universali? La moda può oggi essere ribellione? La ribellione passa ancora per l’esibizione del corpo?
A parlarci di ribellione femminile, più che le microgonne a vita bassa riportate in auge dall’estetica Y2K (ispirata ai primi Duemila) sono ora le giovani iraniane che si tagliano i capelli per protesta contro la morte di Mahsa Amini. La moda, più che a scandalizzarci, è volta a generare introiti vertiginosi. Concentrata in megagruppi, sposa temi socio-culturali con qualche cinismo e li abbandona appena cominciano a stancare, vedi la retorica della body positivity e dei corpi “curvy” già rinnegata dalla nuova tendenza alla magrezza estrema.
«La moda è uno dei settori che più comporta spreco, come può seriamente incarnare valori rivoluzionari? Non è più trasgressione, ma ornamento e voglia di apparire», prosegue Segre-Reinach. «Quale capo, del resto, potrebbe ancora avere un contenuto trasgressivo? Le giovani danno molti diritti per acquisiti, i giovani maschi sono in crisi, si afferma una moda sempre più fluida tra i due sessi».
Così la gonna (ri)diventa appannaggio maschile. Era il 2002 quando il Victoria & Albert Museum di Londra dedicò una mostra al tema, Men in skirts. Oggi la gonna da uomo scende su tappeti rossi, passerelle e strada. Sarà evidente con la moda del prossimo inverno, ma già Brad Pitt si è mostrato in gonna alla prima di Bullet Train, lo stesso hanno fatto Oscar Isaac a quella di Moon Knight (completo Thom Browne, giacca e gonna a pieghe), Billy Porter agli Oscar 2020, Robert Pattinson in prima fila da Dior. Su TikTok va il femboy, ragazzi che mostrano i loro look con la gonna mettendo in discussione qualunque idea di guardaroba rigido. «Abbiamo visto di tutto. Il corpo non ci scandalizza più. Lo fa, semmai, l’eccesso di rifiuti», chiosa l’antropologa. «La ribellione è nelle pratiche, non nelle forme, adesso. Nella difesa dei diritti: questo conta, e per il resto ognuno si veste come vuole: c’è chi indossa indumenti provocatori però incarna valori reazionari e chi si veste tradizionale ma sostiene posizioni radicali. È l’approccio a contare: un mantello di micelio (filamenti di funghi) è più rivoluzionario di una microgonna».
Il corpo delle donne ha smesso di essere scandaloso? Lo contesta, da Los Angeles, Massimo Ciavolella, distinguished Professor of Italian Renaissance Studies alla UCLA, dipartimento di European Languages and Transcultural Studies. «Negli Stati Uniti la destra estrema evangelista sta portando un duro attacco a tutto ciò che è ritenuto sessualizzato. Dunque, al corpo delle donne e alla sua libertà: pensiamo anche alle continue minacce al diritto all’aborto. È una visione da quaccheri, che le vorrebbero rivestire completamente, e una dittatura della minoranza: certe posizioni sono condivise dal 15/20 per cento della popolazione al massimo, ma le persone di sinistra negli Stati Uniti non vanno quasi a votare o non riescono a reagire», spiega Ciavolella, al lavoro su un “Dizionario degli afrodisiaci”. «Negli Usa si attacca la donna che mostra le gambe o indossa abiti trasparenti, perché il corpo femminile è tornato tabù. In un certo senso è tornato “politico”, per questo lo vediamo esposto, per esempio, alla Notte degli Oscar o al Met Gala: le attrici non vogliono sedurre ma scuotere, affermare la loro individualità». Negli anni Sessanta, prosegue, il messaggio che ogni donna in mini lanciava era “Io sono in possesso del mio corpo”. «Una sorta di “afrodisiaco visuale”. In Europa quel messaggio ribelle è tuttora apprezzato e il corpo femminile non è criminalizzato. Negli Usa sì».
Dame Barbara riposa, ma del nome con cui l’abbiamo conosciuta, Mary Quant, non ci dimenticheremo facilmente. Resterà ad abitare il nostro immaginario, assieme alla promessa di libertà che camminava sulle gambe delle donne.