È stato una scelta obbligata durante la pandemia, ed era considerato una svolta irreversibile. Ma ora il “sogno” di lavorare da casa si è già infranto, con le grandi società che richiamano i dipendenti in sede. E la diffusione di modelli ibridi

Sembrava il Walhalla degli amministratori delegati e dei dipendenti insieme. Niente più file all’ingresso in città, vagoni della metro affollati e puzzolenti, faticosi rientri a casa a ore innominabili. E per le aziende un insperato risparmio di affitto di uffici, cancelleria, energia. Già il nome, smart working, faceva pensare a una svolta per il futuro da cui non si sarebbe più tornati indietro. Se non fosse che a farlo scoprire era una circostanza tragica come il Covid-19, sembrava un colpo di fortuna, il sogno di sempre: lavorare da casa. Con il cane in mezzo ai piedi, i bambini che ogni tanto vengono a darti un bacetto. E il capufficio a debita distanza.

 

Invece, non se ne fa niente. Ci siamo sbagliati. L’Organizzazione mondiale della Sanità non ha fatto neanche in tempo a dichiarare la fine della pandemia (ha promesso che lo farà a breve), che per lo smart working arriva un contrordine planetario, improvviso e categorico com’era stato il suo avvento. Gli uffici di Wall Street - dalle grandi banche alle corporation, dov’era partito il fenomeno - hanno cominciato in rapida successione a emettere ordini di servizio incontrovertibili: basta, si torna tutti in ufficio. Festeggiano i 257 ristoranti del Financial district di Manhattan, quanti ne ha censiti il sito Open Table, un po’ meno i lavoratori interessati che erano ancora, alla fine di marzo, il 51% degli impiegati di New York.

 

«Lo smart working è il contrario della produttività», ha sentenziato il boss di JP Morgan Chase, Jamie Dimon, che all’inizio di aprile ha ordinato a tutti i dipendenti di rientrare in ufficio. Identico copione ha seguito l’abitualmente riservato ceo di Goldman Sachs, David Solomon, che ha definito il lavoro da remoto «un’aberrazione da correggere al più presto ora che la pandemia è alle spalle». Non riesce a pensare, ha aggiunto, «a quante occasioni d’affari perdiamo ogni volta che stiamo fuori ufficio». A distanza di pochi giorni, JP Morgan ha imposto cinque giorni di presenza ai manager e tre agli impiegati. E poi, con un irresistibile effetto-onda, le aziende americane di ogni settore (media compresi) hanno sentenziato la fine dello smart working.

 

Lavorare in ufficio, è il messaggio, stimola la produttività perché induce all’imitazione e alla concorrenza, permette di stabilire un rapporto diretto con i clienti e convocare riunioni immediate per problemi urgenti, attribuisce ai capi reparto la possibilità di disporre subito dei collaboratori, induce a qualche controllo in più sull’attività dei singoli. Viceversa, isolamento e fusione della vita professionale con quella privata possono provocare un corto circuito deleterio; e la mancanza di interazione continua con i colleghi sul lungo termine ostacola lo sviluppo di nuove idee. Quindi, retromarcia. Vengono smentite le previsioni dell’Ocse, la quale, in un report del dicembre 2021, aveva profetizzato che «le innovazioni nei metodi professionali con l’adozione massiccia del lavoro a distanza» sarebbero rimaste tali e quali anche negli anni a venire. Niente di tutto questo.

 

E in Italia, dove ancora a fine 2021 erano 8,8 milioni (il 40% della forza lavoro) i lavoratori in “smart”? «Ci si sta orientando per un lavoro ibrido: in remoto qualche giorno alla settimana, di solito non più di due, e gli altri in ufficio», spiega Alfonso Fuggetta, a capo di Cefriel, il centro di formazione e innovazione del Politecnico di Milano. «I modelli sono tutti in divenire. Noi per esempio non abbiamo tolto nessuna scrivania, a costo di vederla vuota a giorni alterni. Le cassettiere, le foto, le cose che creavano il vecchio ufficio tradizionale restano sempre al loro posto». Ma poi tutto dipende dal tipo di lavoro: «È chiaro che una società di assicurazioni, un centro studi, un giornale si prestano di più allo smart working». A Fuggetta si aggiunge Annamaria Devanna, partner della società di formazione e coaching Nilman: «Quando devi fare sviluppo e innovazione, non puoi pensare di lavorare a distanza perché non consente di trasferire conoscenza, tecnica e organizzativa, fra un partecipante e l’altro». Da tutti i settori, aggiunge Devanna, «riceviamo un input preciso: i corsi di aggiornamento, quelli manageriali, le conferenze interne, insomma ogni occasione per i dipendenti di ritrovarsi, di lavorare insieme, scambiandosi conoscenze anche minime e istantanee, sono ricercati avidamente con un bisogno quasi fisico di tornare a guardarsi negli occhi e condividere una missione».

 

Un mini-sondaggio condotto da L’Espresso presso alcuni dei maggiori gruppi italiani (Enel, Terna, Mtba), nonché tra Confindustria, Banca d’Italia e l’universo della Pubblica Amministrazione, conferma che per il momento lo schema dei due giorni in remoto prevale. Con sempre maggior attenzione: la Banca d’Italia, per esempio, in un documento raccomanda di «valutare il funzionamento del nuovo modello ibrido e i suoi effetti sulle variabili per noi molto rilevanti: efficacia, efficienza, rischi operativi, socialità, salute delle persone, impronta ambientale». E un altro report, stavolta di Manpower, ammette: «La maggior parte dei lavoratori (51%) e la metà dei datori di lavoro (50%) sostengono che le idee più creative nascono durante le sessioni di brainstorming dal vivo». E più oltre: «L’82% dei lavoratori e dei datori di lavoro italiani ritiene che la collaborazione di persona generi le idee più creative e favorisca il cameratismo sul posto di lavoro». Non è finita: «Il 32% degli italiani che lavorano da remoto afferma che, rispetto ai loro colleghi che lavorano costantemente in ufficio, hanno meno possibilità di essere presi in considerazione per una promozione».

 

I meccanismi interni di formazione delle gerarchie sono un altro punto debole del «lavoro agile». Dall’America arrivano altri segnali inquietanti: lo smart working avrebbe provocato un peggioramento della condizione femminile sul lavoro. La McKinsey ha calcolato che negli Usa una donna su quattro ha lasciato il lavoro, o perlomeno calcolato di farlo, una volta avviato lo smart working in pandemia; gli uomini sono invece uno su cinque. La società di consulenza lo chiama «pandemic gender effect»: troppo complesso da gestire, spiega McKinsey, l’onere delle responsabilità familiari e genitoriali, una volta che si era rientrate in casa dopo la parentesi “salvifica” del lavoro. «È stato così annullato il lento, ma progressivo avanzamento delle donne nel mondo del lavoro», sentenzia McKinsey. «I nostri sondaggi, estesi su centinaia di aziende, non avevano mai rilevato una tale percentuale di donne che scelgono di lasciare il lavoro prima del 2020».

 

Un aspetto parallelo allo smart working, ancora più in discussione, è la Didattica a distanza o Dad. Oltre a un generale consenso – acclarato dai test Invalsi – sul fatto che i risultati didattici, specie nelle scuole inferiori, siano disastrosi (e che siano favoriti i ragazzi che possono essere seguiti dalla famiglia), c’è un paradosso: secondo un sondaggio della Fondazione Agnelli, fra l’85 e il 93% degli studenti, a seconda delle materie, indica proprio il vecchio libro di testo come materiale didattico chiesto dai docenti per le attività in Dad. Con l’eccezione dell’uso delle piattaforme di comunicazione per lezioni e verifiche (Zoom, Google Meet, Microsoft Teams), la Dad, insomma, non ha favorito l’adozione di innovazioni digitali a scuola.