Con Omicron alcuni Paesi europei reintegrano il lavoro da remoto, mentre in Italia molti imprenditori lo temono e il ministro Brunetta lo osteggia nella PA. Ma sempre più lavoratori lo difendono: «Oggi è una misura per prevenire i contagi, dovrà diventare una nuova modalità di organizzazione degli incarichi»

Da giorni i casi sono in aumento, oltre un milione di cittadini è positivo e il sistema dei tamponi è ingolfato da settimane. Le lunghe file davanti alle farmacie, i test fai da te introvabili e il ricorso a strutture private hanno riacceso il dibattito sul lavoro da remoto. Che certo taglia fuori alcune professioni, ma ridurrebbe per chi ne usufruisce il rischio di contagi. E, secondo i sostenitori, abbandonando la logica emergenziale della pandemia, contribuirebbe al benessere psicofisico del singolo.

 

Se ne accorgono anche sindacati e politica: nonostante le resistenze del ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta – che proprio a ottobre con un decreto aveva chiesto il rientro in presenza dei dipendenti pubblici - oggi diverse sigle tra cui Cgil, Flp e Confsal vogliono si torni allo smart working. Pochi giorni fa il responsabile Enti locali del Partito democratico, Francesco Boccia, dichiarava che «il lavoro agile nei servizi e nella pubblica amministrazione è un’opportunità e non un limite». La stessa linea del sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, secondo cui «con l’aumento dei contagi dovrà essere rivisto il sistema lavorativo. Inevitabile un parziale ritorno allo smart working». Confermato dalla proroga dello stato di emergenza al 31 marzo 2022. L’estensione, chiarisce il professor Raffaele Fabozzi, ordinario di Diritto del lavoro alla Luiss, «permette di accedervi in maniera più agevolata e senza necessità di accordo individuale con il singolo lavoratore».

 

Ma l’intenzione di molti è superare la natura emergenziale del provvedimento. Gilberto Gini, segretario nazionale di Smart workers union (nato poco più di un anno fa, al momento conta un migliaio di iscritti), dice che il suo sindacato è nato per rispondere «al deserto di rappresentanza attorno ai lavoratori». E spiega: «In questo momento lo smart working è una misura per prevenire i contagi, ma dovrà diventare una modalità di organizzazione degli incarichi. I lavoratori sono favorevoli perché hanno visto che usandolo è possibile dedicare più tempo alla famiglia e agli hobby, senza diventare meno produttivi. Il lavoro agile favorisce la sostenibilità, umana e ambientale. La pandemia ha dimostrato le inefficienze della nostra infrastruttura digitale, ma dobbiamo usarle come spunto per migliorare e andare avanti nel processo di digitalizzazione». Il nodo, secondo Gini, è culturale e va superata l’idea di alcuni dirigenti ancorati alla necessità di «vedere il personale in presenza e capaci di considerare il lavoro solo come adempimenti burocratici e non programmazione di obiettivi».

 

La pensa allo stesso modo anche Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza: «I capi che si oppongono allo smart working hanno spesso una visione arcaica del potere, che consiste nel sovrastare visivamente il dipendente. Perché abbiamo dovuto aspettare arrivasse una pandemia per ricorrerci invece di adeguare prima le strutture?». Un’inadeguatezza mostrata anche dai dati Istat. Nel 2020, solo il 3,6 per cento delle istituzioni era già precedentemente attrezzato con iniziative capaci di reggere il passaggio al digitale. E l’emergenza sanitaria ha indotto a sperimentare e improvvisare soprattutto le piccole amministrazioni. Lo conferma anche la ricerca dell’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, secondo cui a marzo 2021 degli oltre cinque milioni di smart worker totali il numero più basso è rappresentato da quelli nelle microimprese (un milione circa) e nelle piccole e medie (830 mila). Ma i benefici riscontrati sono stati trasversali: «Tutte le organizzazioni – si legge nel report – evidenziano un forte miglioramento dell’equilibrio tra vita professionale e privata».

 

Per questo, molti lavoratori che ne avrebbero la possibilità preferiscono tornare allo smart working: «Il mio lavoro potrei farlo da casa. Non capisco perché ancora non è obbligatorio per i settori che lo possono permettere. Non vorrei rischiare un contagio in ufficio», scrive un utente su Twitter. «Otto positivi, persone in quarantena, contatti in isolamento. Risultato? Ufficio chiuso fino a gennaio, ma il problema è lo smart working», aggiunge un’altra. E poi ancora: «Il telelavoro dovrebbe diventare un nuovo modello organizzativo. Speriamo si capisca anche in Italia e che non venga utilizzato solo in modo emergenziale». Le testimonianze così sono decine, spesso ricondivise sul social da un profilo, “bioccolo”, che si definisce «un account collettivo di discussione sullo smart working e i diritti dei lavoratori».

 

In seguito all’ondata di contagi, anche l’Organizzazione mondiale della sanità aveva invitato a reintrodurre il lavoro agile. Alcuni Paesi europei hanno ascoltato l’appello. È successo in Germania, dove sul luogo di lavoro si applica la regola 3G (accesso con vaccino, guarigione dal Covid-19 o test negativo) e le normative in vigore dal 24 novembre fino al 19 marzo 2022 prevedono che «il datore di lavoro offra sempre l'opportunità di lavorare da casa per attività d'ufficio». Il governo francese ha annunciato un provvedimento simile, dicendo che dove possibile il telelavoro diventerà obbligatorio per tre giorni a settimana a partire da gennaio. E qualche settimana fa anche il primo ministro britannico Boris Johnson aveva annunciato un «Piano b» per frenare il virus, con ricorso allo smart working.

 

Una soluzione che per molti lavoratori meridionali è stata l’occasione di tornare nel luogo d’origine. Un’esigenza intercettata da South Working, associazione nata a marzo 2020. «C’è il desiderio di rivalsa dei territori, importante perché molti vogliono riscattarsi e combattere lo spopolamento con strategie innovative. E la voglia di sostenere chi vuole lavorare dalla propria area di provenienza», dice il vicepresidente Mario Mirabile. Chi si è spostato, racconta, ha tra i 25 e i 40 anni. Molti sono impiegati nel digitale o nel settore consulenze. E, come nel caso di Salvatore Gulfo, di Tursi, un piccolo comune in provincia di Matera diventato il primo in Basilicata a offrire spazi di co-working, vogliono riscoprire la loro terra. «Sono tornato nella mia città natale e dopo pochi mesi ho deciso di favorire il turismo destagionalizzato dei lavoratori da remoto. Allestendo stanze e scrivanie in un monastero del 1600 situato nel centro storico. Così si uniscono lavoro, cultura e natura e si supera l’alienazione di stare da soli davanti a uno schermo». Per Pietro Polito invece, maestro originario di Petralia Sottana, un piccolo comune che fa parte del parco delle Madonie, in Sicilia, creare luoghi per il co-working significa «riattrarre il capitale umano perso, riprendendo un posto che ci appartiene e sentendoci un tassello della soluzione contro la fuga dei cervelli».

 

 

In quest’ottica lo smart working può sì migliorare il benessere della persona, dice Maura Gancitano, fondatrice di Tlon, un progetto interdisciplinare di filosofia, ma a patto che lo strumento offra l’occasione di ripensare il sistema-lavoro e la classe manageriale. Spesso orientati solo alla produzione e non all’equilibrio di chi lavora. Altrimenti, spiega l’economista e direttrice della School of gender economics Azzurra Rinaldi, «la paura è che il telelavoro diventi come il part-time, una modalità riservata alle donne per gestire contemporaneamente occupazione e lavoro di cura, non retribuito, che ancora grava troppo sulle loro spalle».

 

E allora, per rendere lo smart working non solo una risorsa d’emergenza ma una modalità lavorativa per il futuro serve un cambio di passo. Affiancato da un profondo lavoro culturale. Capace di intercettare e non silenziare le esigenze del singolo, consapevoli che del benessere del lavoratore giova anche la produzione.