L’astronauta incarna il nuovo approccio inclusivo del settore cosmico. Da prima donna e cittadina europea a camminare fuori dall’Iss e a diventarne comandante. E ora punta alla Luna. Lavorando in team

È il 21 luglio 2022, ore 16:58, 400 chilometri sopra la Terra. La prima a uscire dalla Stazione spaziale internazionale è lei: Samantha Cristoforetti. «Tutto ok», la si sente comunicare via radio (e in russo) a Sergei Korsakov, il suo supporto, senza che la voce tradisca la minima emozione. Quindi, nella sua tuta “Orlan”, comincia a fluttuare all’esterno della Stazione, pronta a lavorare per le successive sei ore e mezzo con il cosmonauta Oleg Artemyev.

Quarantacinque anni, ingegnera, ex pilota dell’Aeronautica militare e, dal 2009, astronauta dell’Agenzia spaziale europea, Cristoforetti è la prima europea ad affrontare una attività extra-veicolare, in gergo “Eva”, cioè a uscire da un mezzo in orbita protetta solo da uno scafandro. Checché se ne dica, tutto fuorché una “passeggiata”: è più una coreografia studiata nei minimi dettagli. Si sta pur sempre galleggiando con il vuoto cosmico intorno e a 28 mila chilometri l’ora.

Al di là di rischi, primati e scopi operativi – installare un nuovo braccio robotico – la space walk di Cristoforetti ha più di un significato: effettuata insieme con Roscosmos, l’Agenzia spaziale russa, l’attività ribadisce quanto, oltre l’atmosfera, le collaborazioni internazionali possano protrarsi in modo pacifico anche in un momento drammatico per gli equilibri geopolitici. E, chissà, rimanere un ponte diplomatico potente. Nondimeno, da prima europea a uscire dalla Iss, Cristoforetti incarna il nuovo approccio del settore spaziale, via via più inclusivo. Un fatto ribadito dalla sua nomina, poche settimane dopo, a comandante della Stazione. Anche in questo caso, è la prima volta per una cittadina europea.

A otto mesi da quel momento e una volta conclusa “Minerva”, la sua seconda missione di lunga permanenza in orbita (170 giorni; la prima volta, per “Futura” dell’Agenzia spaziale italiana, furono 200), il ricordo è ancora intenso. «È l’esperienza che mi è rimasta più impressa, perché nuova», dice lei dal Centro astronautico europeo, a Colonia, dove si trova.

Ed è un’esperienza unica, anche per i suoi rischi.
«Di certo è un’attività più pericolosa rispetto a quelle svolte negli altri giorni. Beninteso, anche il lancio ha i suoi rischi, ma ciò che potrebbe andare storto in quel caso è fuori dal nostro controllo. Un’attività extra-veicolare, invece, è perlopiù gestibile dall’astronauta, costringe a mantenere la concentrazione massima. Il rischio più grande è staccarsi dalla Iss o creare una situazione pericolosa commettendo qualche errore. Un’uscita è particolare per questo: è un richiamo costante a lavorare bene, a prestare attenzione ogni secondo a dove si mettono le mani, gli strumenti, a dove agganciarsi».

Qualcosa di straordinario, come la maggior parte delle cose che fanno gli astronauti.
«Come in tanti momenti della vita, non è facile fermarsi a pensare di stare facendo qualcosa di straordinario. Anche perché un astronauta vive inserito in una comunità in cui tutti, con ruoli diversi, hanno a che fare con lo spazio. È difficile, fra amici con professioni simili, percepirsi unici».

Non sta eccedendo con la modestia?
«Col senno di poi, osservando la Iss passare, mentirei se non ammettessi di essermi chiesta più di una volta se avessi sognato o se davvero fossi stata lassù. Il cambio di prospettiva è impressionante una volta a Terra. Il fatto, però, è che dopo l’euforia dell’arrivo a bordo, la Stazione diventa rapidamente casa, un luogo di lavoro con un programma serrato. In più andrebbe riconosciuto che, in quanto a capacità uniche, gli astronauti sono molto presenti nell’immaginario collettivo, ma c’è chi ha lavori ben più particolari, solo meno clamorosi: penso ai militari impiegati in scenari di guerra, a chi fa esplorazioni estreme, a chi trascorre la vita nei cantieri».

Non in molti, però, possono sperare di andare sulla Luna. Lei è fra i candidati europei a poterlo fare con il programma Artemis…
«Siamo in sette, della classe astronauti del 2009 (che comprende anche Luca Parmitano, ndr). Il momento è bello, frizzante, perché fra un paio di mesi si aggiungeranno anche le nuove colleghe e i nuovi colleghi selezionati a novembre: sei di ruolo, fra cui due donne, e undici riserve. Anche per questo, più che ai miei sogni individuali, è il momento di pensare ai traguardi collettivi: la grande scommessa, sulla Luna, sarà creare un’architettura che renda tutto sostenibile, anche economicamente».

A che cosa sta lavorando adesso?
«Sono in quello che si chiama periodo post-flight, quindi non ancora a tempo pieno su un’attività specifica. Quest’anno e il prossimo sarò occupata da progetti diversi: uno è il Lunar Gateway, la stazione che realizzeremo in orbita cislunare e che supporterà le attività sulla superficie. Non mi impegnerà, come in passato, per la maggior parte del tempo: ormai è un programma avviato che coinvolge un team solido e guidato, per l’Esa, da Sara Pastor, un’ingegnera italiana. Per quanto mi riguarda, serve che ogni tanto dia agli ingegneri punti di vista basati sulle mie esperienze in assenza di peso. Ma è prevista un’alternanza con i miei colleghi. Sarò più occupata da tutto quel che riguarda il volo spaziale abitato, una riflessione relativa anche alle ambizioni che l’Europa vuole coltivare».

Perché è così importante per l’Europa avere un accesso autonomo degli astronauti allo spazio?
«Perché lo spazio non è più un’avventura separata dalla vita collettiva, ma una parte integrante delle nostre conoscenze tecnologiche e scientifiche, della nostra competitività e della capacità di rispondere alle esigenze dei cittadini. È un po’ come chiedersi se sia rilevante saper costruire in maniera autonoma gli aeroplani o i treni, oppure lavorare i semiconduttori o all’hi-tech. Oggi lo spazio sottende competenze tecnologiche e industriali strategiche. Sarebbe più opportuno farsi la domanda opposta: per quale motivo dovremmo rinunciare alla capacità autonoma di inviare i nostri astronauti oltre l’atmosfera?».

Però, complici un momentaneo stop dei lanciatori europei e una concorrenza di privati e nazioni straniere sempre più accesa, l’Europa spaziale sta vivendo un momento di crisi.
«Per questo occorre investire molto nel programma spaziale europeo. Una crisi può avere due esiti opposti: o ti abbatte o mobilita energie e risorse capaci di rinnovarti. Sostenere che ogni crisi renda più forti sarebbe retorico, ma mobilitarsi per superarla è un imperativo».

A proposito di cambiamenti, il settore spaziale è tradizionalmente maschile. Che cosa sta facendo l’Esa per ridurre il gender gap?
«Circoscrivendo l’osservazione agli astronauti, ritengo che la comunicazione dell’Esa per incoraggiare le candidate europee sia stata un successo: le candidature, più di 22.500 valide, sono state quasi il triplo di quelle del 2008. Per il 39% sono arrivate da donne (contro il 18% della selezione precedente, ndr) e altre 287 sono state avanzate (257 valide) da persone affette da disabilità (per il 27,6% femminili). È solo l’inizio, ma credo che il tempo e la sensibilità delle nuove generazioni possano dare una mano. Mi sembra che le giovani donne, oggi, sappiano bene di dover essere messe nelle condizioni di giocare alla pari in un mondo dove le regole non siano truccate. Capiscono subito se c’è qualcosa che non va e, grazie al cielo, protestano».