Scioperi, welfare a terra, mancanza di fondi. Il commercio con la Ue (era più del 50%) segna il passo. Qualcuno propone un nuovo referendum per tornare indietro. Ma non è affatto semplice

Lunedì 6 febbraio più di 40mila infermieri e paramedici sono scesi in sciopero paralizzando la rete ospedaliera della Gran Bretagna, così come pochi giorni prima avevano fatto gli autisti delle ambulanze. Per tutta la settimana precedente l’85% delle scuole del regno erano rimaste chiuse per l’agitazione degli insegnanti. Volare su Heathrow e Gatwick è una scommessa dall’inizio dell’anno per i continui scioperi anche senza preavviso del personale aeroportuale, dei controllori di volo, degli addetti di terra delle compagnie. E andare in treno è difficile per i blocchi a intermittenza decisi dai ferrovieri e perfino dai macchinisti delle metropolitane. Qualsiasi richiesta salariale viene respinta al mittente per mancanza di fondi. «Sembra il lockdown, ma stavolta sarà più lungo», commentano i tabloid. In questo quadro, come stupirsi se il Fondo Monetario Internazionale ha decretato che l’economia britannica è l’ultima per crescita fra i quindici principali Paesi del mondo, con un -0,6% di Pil previsto nel 2023 (un peggioramento di 0,9 punti dalle previsioni di ottobre), peggio anche della Russia? La Bank of England - che pure non ha rinunciato ad alzare ancora i tassi fino al 4% all’inizio di febbraio per combattere l’altra piaga dell’inflazione che ristagna intorno al 10% - prevede fra cinque e sette trimestri in negativo a partire dall’ultimo del 2022. «Questa non è recessione, è un disastro», decreta Foreign Affairs. Che aggiunge impietoso: «Il Paese ha ormai il peggior welfare state (sanità+pensioni, ndr) del mondo industrializzato, Stati Uniti compresi. Per di più, la crisi degli alloggi è senza precedenti, il Regno Unito è l’unico Paese europeo dove le aspettative di vita diminuiscono, il deficit commerciale si sta allargando irrimediabilmente. È una crisi peggiore di quella degli anni ’70, quando Londra subì l’umiliazione di dover chiedere un prestito al Fmi (lo fece pure l’Italia, ndr)».

Cosa succede nella perfida Albione? La risposta è racchiusa in una parola: Brexit. «Ormai è più diffuso un altro neologismo, Bregret, ovvero rammarico per la Brexit», commenta Brunello Rosa, che insegna alla London School of Economics. «Il Regno Unito si è tagliato fuori dal mercato comune europeo, che vuol dire assenza di controlli doganali, di dazi, di procedure tortuose per gli scambi commerciali, e ne sta pagando carissimo le spese. La prova è nelle file di camion al porto di Dover o all’accesso in Irlanda, dove oltretutto c’è il problema del confine fra le due parti dell’isola dalla cui soluzione può dipendere perfino la ripresa delle ostilità fra cattolici e protestanti».

Tanti sono gli aspetti di questa crisi: «Prendiamo - aggiunge Rosa - la libera circolazione delle persone che vigeva con il Regno Unito nella Ue: unita all’attrazione che suscita una città come Londra, aveva creato un movimento vivacissimo di lavoratori di ogni livello che entravano, uscivano, contribuivano all’economia del Paese. Ora niente più di tutto questo, e la carenza di personale europeo, il più qualificato, che deve sottoporsi alle estenuanti trafile di chi arriva da posti lontani, è arrivata a livelli allarmanti. Con il risultato che chi resta deve fare doppi e tripli turni, e se chiede un aumento salariale viene respinto con perdite».

Quanto alle banche, la perdita del “passaporto unico” (una sola licenza per operare in tutta Europa) ha forzato ad aprire costose filiazioni nel continente. John Springford del Centre for European Reform di Londra, la mette giù brutale: «Se imponi barriere al commercio, agli investimenti, all’immigrazione con il tuo più importante partner, l’Unione europea (più del 50% degli scambi erano con l’Ue, ndr), cosa ti aspetti che succeda al tuo Pil?».

Ma fare un contro-referendum per rientrare in Europa come propone Fareed Zakaria sul Washington Post? «È troppo complesso, aprirebbe un ennesimo capitolo che peggiorerebbe ancora di più la crisi», risponde Ferdinando Nelli Feroci, una lunga carriera da ambasciatore e analista con l’Istituto Affari Internazionali che presiede. «Si tratterebbe di reinstallare, ammesso che stavolta il popolo si pronunci pro-Europa, la complessa architettura di leggi e regolamenti che contemplava l’appartenenza all’Ue e si è appena finito di smantellare (il referendum è del 2016 ma la Brexit è operativa dal 1° gennaio 2021, ndr). È sconcertante un errore di calcolo di questa portata, così come sorprendenti sono stati i più recenti passi falsi in politica economica».

L’ultimo errore risale allo scorso autunno, quando la premier Liz Truss e il Cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, deliberarono una riforma fiscale che tagliava le tasse ai più abbienti, priva di copertura per 47 miliardi di sterline. «Si credette di fare una manovra thatcheriana, nella speranza che così i ricchi avrebbero investito redistribuendo risorse sia ai poveri che alle casse dello Stato», spiega Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica. «Nulla di più sbagliato: la Banca centrale fu addirittura costretta a cambiare la sua politica varando un acquisto apposito di titoli di Stato ».

Il parlamento di Westminster ha mandato a casa Truss e Kwarteng e il nuovo premier, Rishi Sunak con il suo Cancelliere Jeremy Hunt, hanno nei loro primi cento giorni appena scaduti controriformato il fisco con più tasse sui ricchi e meno sui poveri. Ma hanno solo in minima parte risolto il problema. «La verità - conclude Zakaria - è che oggi non si può parlare di Great Britain ma di Little Britain, per quanto il Paese è diventato marginale e isolato nel quadro mondiale».