Con la fine della libera circolazione delle persone tra Unione europea e Regno Unito termina anche la possibilità di cercare un lavoro “all’avventura” una volta entrati nel Paese e sorgono nuove complicazioni per i residenti permanenti e gli studenti europei

«Avrei preso in ogni caso il settled status, ma con la Brexit mi sono dovuta sbrigare. Per me Londra era un’idea prima ancora che un posto reale. È un luogo dove ci sono opportunità, in campo artistico, che nella mia esperienza non ci sono in Italia. La Brexit però ha messo in dubbio quest’idea di un porto sicuro che rappresentava un tempo».

Serena è arrivata a Londra nel 2011 e, come molti altri europei che risiedono nel Regno Unito, nel 2018 si è affrettata a richiedere la residenza permanente a causa della Brexit. Con l’uscita definitiva del Paese dall’Unione europea, avvenuta lo scorso 31 dicembre, è finita anche la libera circolazione di merci e persone tra i due blocchi.

Per continuare a risiedere nel regno di Sua Maestà, gli europei che si sono trasferiti dovranno ricorrere (entro giugno di quest’anno) all’EU Settlement Scheme che – dimostrando di aver risieduto nel Paese prima del 31 dicembre 2020 – dà diritto alla residenza permanente (settled status), per coloro che abitano nello Uk da più di cinque anni, o alla residenza provvisoria per cinque anni (pre-settled status), per coloro che invece vi risiedono da meno.

Il passaggio a questo nuovo sistema ha comportato delle novità per la vita degli europei sull’isola. Ad esempio Serena racconta come, nelle fasi di selezione per ottenere il ruolo che ora ricopre, ovvero vocal coach in un’università della capitale, le sia stato detto che possedere il settled status avrebbe rappresentato un requisito preferenziale di scelta dei candidati. «Se non lo avessi avuto, ciò mi avrebbe danneggiato. La paura è che tutto diventi più complicato per i non-inglesi e che le decisioni vengano prese in base a ciò che è più facile o difficile dal punto di vista burocratico».

Ed è la stessa impressione che ha avuto Chiara, psicologa presso l’NHS, il servizio sanitario nazionale inglese, arrivata nella capitale nel 2014. «Comincia già a sentirsi un clima un po’ diverso. Sono regolarmente assunta con un contratto a tempo indeterminato ma recentemente le risorse umane mi hanno contattato chiedendomi documentazione del settled status. E questo l’ho trovato strano perché in passato nessuno ci aveva mai richiesto una cosa del genere».

E continua: «Hanno contattato tutti gli europei che lavorano nella mia clinica per chiedere prova che abbiano il diritto a rimanere. Essendoci spostati qui con la libertà di movimento, ora è strano che dobbiamo dimostrare questo diritto con delle lettere. Non è un grande impedimento, però è sicuramente una cosa fastidiosa, perché non era questo il presupposto con il quale si era arrivati qui nel 2014».

L’immigrazione è stato uno dei temi chiave nel dibattito sulla Brexit e gli europei, che dal 1° gennaio 2021 vorranno trasferirsi per studio o lavoro nel Regno Unito, dovranno scontrarsi con il nuovo sistema d’immigrazione a punti che «privilegia le competenze e il talento delle persone rispetto alla loro provenienza», come recita la pagina web del governo inglese sul tema.

Con il nuovo sistema, non sarà più possibile entrare nel Paese come turisti e poi cercare un lavoro con calma. D’ora in poi ci si potrà trasferire per lavoro nel Regno Unito solo essendo in possesso di un visto, per esempio quello per “lavoratori qualificati”, che si ottiene soddisfacendo una serie di requisiti, tra i quali: la conoscenza al livello B1 dell’inglese e un’offerta di lavoro con una soglia minima salariale solitamente di 25.600 sterline annue.

Se l’offerta di lavoro ha un salario inferiore alle 25.600 sterline, ma non inferiore alle 20.480, c’è comunque la possibilità di ottenere il visto “aggiungendo punti”, per esempio, con un dottorato in una materia utile al lavoro che si andrà a svolgere oppure con un’offerta di lavoro in un settore a carenza di personale. Per avere diritto al visto si dovranno accumulare un totale di 70 punti.
D’ora in avanti è dunque esclusa la possibilità per gli europei di trasferirsi nel Paese senza essere già in possesso di un’offerta di lavoro. Tutto questo, per evitare, nell’ottica del governo, l’immigrazione di lavoratori non qualificati provenienti dall’Unione europea.

I lavoratori europei, tuttavia, non sono gli unici colpiti dal sistema d’immigrazione a punti. Anche gli studenti, che prima potevano studiare nelle prestigiose università del Regno Unito alle stesse condizioni e pagando le stesse tasse dei loro omologhi britannici e nordirlandesi (più contenute rispetto a quelle per i non-europei), ora dovranno richiedere un visto apposito e procurarsi un’assicurazione sanitaria.

Secondo Universities Uk (UUK) – che raccoglie le voci di 140 università della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord – come risultato del nuovo sistema d’immigrazione, il governo inglese prevede una diminuzione intorno al 20% del numero di studenti europei, senza contare l’impatto della pandemia da Covid-19.

In un report dello scorso anno dello stesso ente, si sottolinea anche l’importanza che la dimensione internazionale ricopre per le università del Regno Unito. Gli studenti internazionali costituiscono il 20,7% del totale della popolazione studentesca; nel 2019 il 57,2% delle pubblicazioni accademiche inglesi sono state frutto di collaborazioni di ricerca internazionali rispetto al 25,7% del 1999; inoltre, nel biennio 2018-2019, il 20,9% dei componenti dello staff delle università proveniva dall’estero, dei quali il 60% erano cittadini europei. Tra questi gli italiani sono la maggioranza. La componente di italiani negli staff degli istituti d’istruzione superiore ha visto un aumento, negli ultimi cinque anni, del 41,8%.

Eleonora, docente in un’università londinese, è una di questi. «All’interno delle università ci sono già enormi problemi di finanziamento. I dottorandi dovranno trovare altre fonti per finanziare il proprio lavoro e lo stesso vale per la ricerca», dice all’Espresso.

Dopo Brexit, spiega Eleonora, anche l’atmosfera nel campus universitario è cambiata: «Per esempio, il giorno dopo il voto, nella caffetteria dell’università due inglesi hanno sentito due ragazzi stranieri parlare spagnolo e gli hanno rivolto frasi come “tornate nel vostro Paese, questo non è il vostro posto, abbiamo votato per Brexit”. E questa è solo una prova aneddotica…ma cose del genere sono successe anche nel resto del Regno Unito. Io vivo a Londra – che è una città multiculturale dove la gente si accetta a vicenda – ma, in un certo senso, la Brexit ha dato voce alle persone più razziste, che ora si sentono in diritto di dire “vogliamo gli immigrati fuori dal Paese”».

Inoltre, il Regno Unito ha definitivamente annunciato la sua uscita dal programma di mobilità internazionale Erasmus+ definito, da Boris Johnson, «troppo costoso». Al suo posto, accantonato definitivamente l’autore dell’Elogio della follia, il premier ha annunciato la creazione del più britannico Turing scheme – intitolato al matematico inglese Alan Turing – che avrà, da quanto annunciato, una portata globale piuttosto che esclusivamente europea.