Nel 2027 Pechino vuole inaugurare una base commerciale di lancio nel Gibuti. A chiudere l’accordo, una società specializzata. Lo Stato non è il solo investitore a diventare prima superpotenza

Sette rampe di lancio e tre per i test nella regione di Obock, in Gibuti. Lì, nel Corno d’Africa, la Cina intende inaugurare nel 2027 uno spazioporto commerciale internazionale. Lo prevede il memorandum siglato a gennaio dal governo locale e da Hong Kong Aerospace Technology Group, compagnia specializzata nella produzione di satelliti e attività di tracciamento, disposta a investire più di un miliardo di dollari per la base. Non vincolante, il memorandum implica la concessione di un’area di dieci chilometri quadrati per almeno 35 anni e la realizzazione di infrastrutture. I lavori dovrebbero iniziare a marzo, quand’è prevista la formalizzazione dell’accordo, e concludersi in quattro anni. Così fosse, sarebbe l’ennesimo esempio di quanto, per la Cina, lo spazio sia un tassello fondamentale per diventare la «potenza tecnologica numero uno entro il 2049»: il centenario della Repubblica popolare.

Al di là dei palloni (spia) nei cieli americani, «il memorandum ha una valenza geopolitica importante – conferma Marcello Spagnulo, consigliere scientifico di Limes – anzitutto perché siglato da una società privata. È un’azzeccata manovra diplomatica che permetterà di attivare la corporation facendone una propaggine della Repubblica popolare».

Non solo. Sebbene la Cina possa già lanciare in orbita geostazionaria (quota cruciale per le telecomunicazioni, accessibile con decolli dall’Equatore), «l’accordo comporterebbe di poterla raggiungere anche dall’estero. Un approccio simile a quello adottato in Argentina, dove la Repubblica ha un radiotelescopio per le missioni lunari difeso dal proprio esercito. Peraltro, la Cina ha sviluppato mezzi di lancio su piattaforme marine mobili e il suo parco razzi è impressionante».

Ma conviene riavvolgere il nastro: 9 giugno 1995, New York. La visita del presidente taiwanese, Lee Teng-hui, alla Cornell University scatena la terza crisi con la Repubblica popolare, che accusa Lee di muoversi per ottenere l’indipendenza formale e minaccia l’invasione. Nel marzo del ’96 l’Esercito popolare di liberazione lancia tre missili verso Taiwan: il primo cade a più di 18 chilometri dalla base di Keelung, a Nord di Taipei, e degli altri due si perdono le tracce. Secondo gli alti ranghi militari, la colpa sarebbe degli Usa, rei di aver sabotato il sistema Gps (di proprietà americana) installato sui missili balistici. Per Pechino è una «umiliazione indimenticabile» e un monito a ridimensionare le proprie ambizioni.

Flashforward: 23 giugno 2020. Pechino spedisce in orbita il 55° e ultimo satellite del sistema di radionavigazione Beidou, alternativo al Gps. È il compimento del progetto accelerato dalla “umiliazione” ed è evidente che l’impiego dei satelliti cinesi lungo la Belt and Road Initiative potrebbe rappresentare uno strumento d’influenza all’estero. Come ribadisce ora il memorandum con il Gibuti, diventare un polo attrattivo per le potenze spaziali emergenti è un obiettivo della Cina. Soprattutto da quando, per volontà statunitense, è esclusa da programmi come quello della Stazione spaziale internazionale.

Come ricorda Alessandro Gili, research fellow degli Osservatori Geoeconomia e Infrastrutture dell’Ispi, «la Cina è pronta a collaborare con i Paesi del Gulf Cooperation Council, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per il telerilevamento e le comunicazioni satellitari, per l’utilizzo dello spazio e per la selezione e la formazione degli astronauti. Pechino considererà la creazione di un centro congiunto per l’esplorazione dello spazio lunare e profondo. Centrali saranno poi le relazioni con la Russia: oltre alla base lunare congiunta da costruire entro il 2036, i due Paesi hanno firmato un programma di cooperazione spaziale per il periodo 2023-2027».

A oggi, dei 177 miliardi di dollari stanziati ogni anno per la Difesa, non è dato conoscere la porzione investita nello spazio, ma già fra il 2013 e il 2018 potrebbe essere cresciuta da sei a undici miliardi. Alla luce di tutto ciò, si capisce come il ritardo del programma spaziale cinese sia stato ridotto: nel 2019, l’Agenzia spaziale nazionale è stata la prima a manovrare un rover sulla superficie nascosta della Luna. «Oggi – continua Spagnulo – la Cina è l’unica in grado di sfidare la supremazia statunitense».

La centralità strategica dello spazio è corroborata dalle circa 100 mila persone impiegate nel settore. In Europa non si arriva a 40 mila. Ma — scrive Marc Julienne in “China’s Ambitions in Space: the Sky’s the Limit” — «il vero processo decisionale risiede nella State Administration for Science, Technology and Industry for National Defense, all’interno dell’Esercito popolare e in particolare nella Strategic Support Force». In pratica, «il Partito comunista mantiene un rigoroso controllo sulle attività aerospaziali».

È una centralizzazione che allarma l’Occidente. Ma è pure una realtà in fase di cambiamento dal 2014, quando si sono permessi investimenti privati in ambiti sensibili: «Da allora – sottolinea Gili — sono state create più di cento imprese che hanno generato affari per 4,85 miliardi di dollari. Nel 2021 circa il 50 per cento degli investimenti nel settore spaziale cinese è privato».