Il nostro Paese si rafforza come terzo contribuente dell’Agenzia spaziale europea e l’industria specializzata compete a livello internazionale. Ma non mancano le frizioni con gli alleati europei

Lo scorso 16 dicembre si è celebrata la Giornata nazionale dello Spazio, omaggio al San Marco 1, il primo satellite italiano lanciato nel 1964. La ricorrenza non poteva arrivare in un momento più significativo: nei giorni in cui si concludeva la prima missione del nuovo programma lunare, Artemis, eventi all’apparenza poco pertinenti l’uno con l’altro ribadivano quanto i programmi spaziali siano cruciali nell’agenda geopolitica globale. E perché, sulle imprese spaziali, oggi si misuri la capacità tecnico-scientifica e l’incisività diplomatica di un Paese.

 

Tant’è: la Giornata nazionale è arrivata nemmeno un mese dopo il Consiglio ministeriale dell’Agenzia spaziale europea, appuntamento in cui si decidono gli stanziamenti finanziari per i programmi obbligatori e opzionali del triennio successivo. Con un contributo di 3,083 miliardi di euro, l’Italia ha messo sul piatto il 18,2 per cento del budget complessivo e rafforzato la sua posizione di terzo contribuente dell’Agenzia, subito dopo Francia (3,2 miliardi) e Germania (3,51 miliardi). Buone notizie? Sì, se si considera che le cifre segnano un primato storico sia per l’Italia sia per l’Esa – 16,9 miliardi di euro per tre anni sono il budget più alto di sempre — meno se si pensa che nel solo 2023 la Nasa investirà nello spazio 25,4 miliardi di dollari. E se si ignora quanto sia difficile comporre, in Europa, ambizioni e strategie nazionali differenti.

 

Basti pensare a una delle partite più importanti giocate alla Ministeriale, quella sui razzi vettore, tanto strategica da aver portato a una dichiarazione sul loro futuro quadro di utilizzo già alla vigilia del vertice Esa. Siglata da Italia, Francia e Germania, la dichiarazione è destinata a riequilibrare la sproporzione a favore francese, almeno secondo il firmatario Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made in Italy con delega alle Politiche spaziali e aerospaziali. Non è un caso, tornando a dicembre, se una delle tappe principali della prima visita di Stato a Washington del presidente francese, Emmanuel Macron, sia stata alla sede della Nasa. Visita ancor più indicativa in un momento in cui, con la guerra in Ucraina e la crisi energetica, il piglio protezionistico dell’Inflation Reduction Act di Joe Biden rischia di acuire le preoccupazioni europee. Tra le priorità discusse con l’amministratore della Nasa, Bill Nelson, ci sono l’aumento degli investimenti congiunti nell’esplorazione lunare e marziana e un accordo, sottoscritto con il presidente dell’agenzia spaziale d’Oltralpe, Phillippe Baptist, per portare sulla Luna uno strumento francese, la Farside seismic suite, nell’ambito del Commercial lunar payload services.

 

Iniziative in cui l’Italia promette di essere competitiva. «Dobbiamo essere fra i protagonisti dell’esplorazione lunare», conferma Giorgio Saccoccia, presidente dell’Agenzia spaziale italiana: «La nostra industria specializzata è cresciuta e non ha solo dimostrato di poter lavorare ai progetti richiesti dalle istituzioni, ha anche dato prova di trovare un proprio mercato con partner internazionali. Alla Ministeriale Esa abbiamo lavorato per avere un buon posizionamento di partenza anche su progetti nuovi e attraenti per la nostra filiera. Penso al lander lunare Argonaut, di cui siamo diventati i primi sottoscrittori e che dovrà essere realizzato entro il 2030, ma anche alla riuscita attivazione di Moonlight, il programma per lo sviluppo di sistemi di telecomunicazione e navigazione lunare, ora a prevalenza italo-inglese (la prima tranche è stata finanziata con 150 milioni di euro, ndr)». Altrettanto chiaro il numero uno dell’Asi è sull’attività francese: «Mi è difficile dire se la Francia stia muovendosi in modo autonomo. È però ovvio che ogni Paese sviluppi relazioni al di là del contesto Esa. Ritengo più opportuno ci si concentri sul 2023, anno inaugurale dei progetti Argonaut e Moonlight. Per noi sarebbe importante fare di Artemis uno strumento di collaborazione con altri player internazionali come, per esempio, il Giappone».

 

Detto altrimenti, mentre evidenzia interessi nazionali diversi, l’ambizione lunare potrebbe aiutare a ricomporli. «Sarebbe il caso di valutare il programma lunare più con l’occhio del cittadino», commenta Luigi Pasquali, amministratore delegato di Telespazio, azienda capofila di Moonlight, nonché coordinatore delle attività spaziali di Leonardo, gruppo coinvolto in Artemis anche attraverso la sussidiaria Thales Alenia Space. «L’obiettivo di Artemis, cioè una permanenza umana stabile sulla Luna, è un traguardo storico; soprattutto, impone di sfruttare ciò che già sappiamo e avrà ricadute importanti sulla Terra, in termini di sostenibilità, arricchimento, conoscenze. Ci si dovrebbe chiedere perché non partecipare a un’avventura così ambiziosa».

 

Nel contesto lunare ogni investimento promette di essere una frazione del suo ritorno. Come scritto su queste pagine, Artemis richiede scienza e ricerca, reclama infrastrutture da sviluppare, riserva scoperte a beneficio collettivo. Non ultimo, custodisce un eldorado di metalli preziosi, terre rare e acqua ghiacciata. Anche l’approvvigionamento energetico potrebbe giovare di innovazioni sostanziali.

 

La conferma arriva dall’Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, che proprio il 16 dicembre ha annunciato un accordo con l’Asi per uno studio di fattibilità, in vista della futura realizzazione, di Space Nuclear Reactors. L’idea è che mini-reattori nucleari forniscano energia agli insediamenti selenici e alla successiva esplorazione dello spazio profondo. «Quando parliamo di nucleare sulla Luna o su Marte non ci riferiamo ai sistemi oggi disponibili sulla Terra», precisa Mariano Tarantino, per Enea responsabile della divisione Sicurezza e Sostenibilità per il nucleare e coordinatore della sezione progetti innovativi del dipartimento Fusione e Tecnologie per la sicurezza nucleare: «Parliamo di soluzioni compatte, leggere e affidabili. Stiamo orientandoci verso sistemi modulari, accoppiati con pannelli solari. Da una parte vogliamo colmare il gap con Paesi come Stati Uniti, Russia e Cina; dall’altro verificare l’applicazione di queste tecnologie in una finestra compatibile con Artemis, fra il 2030 e il 2035». Nulla di avulso dalla vita quotidiana. «Un progetto come il nostro – continua Tarantino – implica giocoforza applicazioni terrestri: non solo per lo sviluppo di nuovi materiali, che siano resistenti, leggeri ed economici, ma anche per quanto attiene alla filiera produttiva dell’idrogeno, al nucleare ad alta temperatura o alle attività per sostenere la decarbonizzazione».

 

Una preminenza tecnico-scientifica strategica, insomma, come ricordano le ambizioni di Paesi come l’India, pronta a lanciare un lander e un rover lunari a giugno, la Russia, che con Luna 25 a luglio riprenderà il programma sovietico interrotto negli anni Settanta, e la Cina, vera nuova forza nella space race. «Ma credo sia più importante ribadire i benefici che l’avventura lunare promette di restituire a tutti». A dirlo è Massimo Comparini, che alla guida di Thales Alenia Space è coinvolto in Artemis, dalla realizzazione di una parte della futura base in orbita cislunare – il Gateway – fino alla produzione di diverse componenti dei veicoli spaziali anche già testati su Artemis 1: «Dall’epoca Apollo abbiamo ereditato una quantità considerevole di innovazioni. La sfida di Artemis sarà diversa. Occorrerà capire, per esempio, come risponde la fisiologia umana a una permanenza su un altro mondo, cosa non equivalente a sei mesi sulla Stazione spaziale internazionale. Dovremo capire come proteggerci dalle radiazioni, trovare soluzioni più ergonomiche, comprendere cosa portare negli anni sulla superficie lunare per rendere utilizzabili le risorse in situ. Tutto questo genererà una filiera di sviluppi tecnologici, in robotica e intelligenza artificiale».

 

Rimane tuttavia impossibile ignorare gli appetiti lunari diffusi. «Eviterei sensazionalismi: la dimensione tecnologica, industriale e finanziaria delle missioni spaziali esclude che un qualsiasi Paese europeo possa rivendicare un ruolo autonomo», ribatte Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto Affari internazionali: «Ciò premesso, sarebbe ingenuo sottovalutare come nel Vecchio Continente la voglia di mettere la “bandierina” su un’iniziativa comune rimanga forte. Penso, per esempio, all’accesso allo spazio: pur essendo un asset marcatamente europeo, permangono punte di resistenza nazionali capaci di ostacolarne lo sviluppo. Anche in questo caso serve più Europa».