A Berlino sono già tre i processi in corso per i crimini contro l’umanità compiuti dagli uomini del presidente siriano fuggiti in Europa

Ogni volta che si annuncia una nuova data di inizio di un processo, l’avvocato per i diritti umani siriano Anwar al-Bunni commenta con uno sguardo fiducioso, un sorriso sottile e pensa già umilmente al prossimo passo. «Siamo al terzo processo in Germania. Dopo quelli di Coblenza e Francoforte — questo secondo ancora in corso — ne è iniziato uno nella capitale Berlino. Ma aspettiamo il debutto di quelli in Olanda, Austria, Svezia, Belgio… Speriamo anche negli Stati Uniti e in Spagna. Siamo sempre pieni di lavoro».

 

Al-Bunni si riferisce al terzo processo siriano per crimini contro l’umanità, iniziato a fine agosto. Questa volta sotto accusa è un miliziano palestinese-siriano della Brigata “Movimento Palestina Libera” a servizio del regime di Bashar al-Assad. L’imputato si chiama Mowaffak D. e, mentre la polizia tedesca faceva le sue indagini e chiamava più volte i testimoni per ascoltare ancora i dettagli e verificare, i rifugiati siriani lo incontravano che passeggiava a Sonnenallee, la cosiddetta “Via degli Arabi” a Neukölln, Berlino. L’ex miliziano beveva tè e fumava narghilè nei numerosi café arabi, ignaro che di lì a poco sarebbe stato arrestato. Il crimine di cui è accusato Mowaffak D. è aver lanciato un razzo al check-point di ingresso al campo di rifugiati Yarmouk, nella capitale Damasco, diretto a colpire un gruppo di civili in fila per ricevere gli aiuti umanitari dell’Agenzia della Nazioni Unite Unrwa, che è destinata all’aiuto della popolazione rifugiata palestinese in Medio Oriente. Sette delle persone colpite dal razzo sono morte, tra cui un bambino di sette anni; altre trenta sono rimaste ferite, di cui tre gravemente. Era il marzo del 2014, il campo si trovava sotto assedio del regime e il palestinese-siriano ha colpito la popolazione civile inerme: una strage che molti ricordano, in quei giorni a Damasco.

 

Se appena un anno fa, il 13 gennaio 2022, a Coblenza, per la prima volta nella storia un ufficiale del regime di Damasco è stato condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità compiuti a danno di cittadini siriani arrestati perché protestavano pacificamente tra il 2012 e il 2013, a Francoforte è un medico degli ospedali militari di Homs e Damasco a essere sotto accusa per tortura e omicidio. «Anziché curarli, li seviziava», commenta al-Bunni, «e questa è una delle tante prove che il regime siriano ha usato qualsiasi persona, qualsiasi mezzo per uccidere il proprio popolo: non solo l’esercito, gli agenti della sicurezza, i medici, ma anche milizie locali e straniere alleate, come quelle provenienti da Iran, Libano e Iraq». Entrambi i processi sono stati raccontati da L’Espresso, compreso il giorno della sentenza di Coblenza. Quelle di Francoforte e di Berlino si aspettano nei primi mesi del 2023.

 

«Le persone che abitavano nel campo di Yarmouk o là vicino vivevano in una condizione di sofferenza, di stenti e di paura, a causa dell’assedio», racconta Sara, avvocata al fianco di Anwar al-Bunni al Centro siriano per gli studi e le ricerche legali. È lei che ha seguito dall’inizio alla fine il dossier di Berlino dell’imputato Mowaffak D., proprio per la sua conoscenza del contesto attorno a Damasco. Su sua richiesta il nome vero non viene pubblicato perché l’avvocata in questi anni ha continuato a viaggiare verso la Siria, dove è iscritta all’Ordine degli Avvocati, e non risiede dunque in Germania come rifugiata. «Quando uno dei testimoni colpito dalla strage è venuto a Berlino da un’altra regione tedesca sono andata personalmente a prenderlo alla stazione: suo figlio piccolo era una delle vittime. All’arrivo nella capitale, è scoppiato a piangere, sentiva che di nuovo quella tragedia, quel razzo gli stesse crollando addosso; allo stesso tempo era eccitato, pronto a chiedere giustizia, voleva scattare e pubblicare foto e video con me, ma ho detto che non potevo perché la mia identità come avvocata in Germania è nascosta. Oggi la sua voce viene ascoltata da un giudice tedesco».

 

L’emotività legata al dolore profondo di questo padre, sopravvissuto a una strage di civili in Siria, è esplosa anche in Tribunale, quando urlando e piangendo ha detto all’imputato: «Perché avete ucciso tutti questi bambini, donne e civili innocenti? Per amore del vostro padrone Bashar? Vediamo come vi salverà ora dalle voci delle vittime che chiedono giustizia». In aula, ha riferito in un post su Facebook Anwar al-Bunni, avevano tutti le lacrime agli occhi, anche la giudice che ha interrotto l’udienza per una pausa. Accanto all’accusa di strage di civili, durante una testimonianza di un’altra vittima, è stato definito un nuovo crimine contro l’umanità: l’imputato, nel lavoro con la sua brigata per mantenere l’assedio del campo, avrebbe contribuito a rendere impossibile l’arrivo di cibo e aiuti umanitari e, quindi, partecipato a fare morire di fame altri civili.

 

«L’imputato Mowaffak D. è arrivato in Germania con il ricongiungimento familiare da Beirut per riunirsi con la moglie e i figli. Probabilmente ha lasciato la Siria come molti perché la situazione è difficile per tutti e il regime non gli dava più quello di cui aveva bisogno», dice al-Bunni che oltre alla precisa documentazione e preziosa raccolta di testimonianze del suo Centro siriano per gli studi e le ricerche legali, ha dovuto anche conquistare insieme ai colleghi la fiducia di tanti rifugiati siriani. I quali, superata la paura, si sono detti disponibili a diventare testimoni dei processi. Cosa non scontata, date le continue pressioni e minacce a cui sono soggetti i familiari. Una delle vittime del processo di Francoforte ha ritirato la propria testimonianza a dibattimento iniziato proprio per le minacce di morte che la sua famiglia ha subito in Siria.

 

Prima che si aprisse il processo a Berlino, sono passati diversi mesi tra la deposizione dinanzi al procuratore generale del dossier e l’arresto dell’imputato Mowaffak D. «Siamo stati costantemente in contatto con la polizia tedesca: da un lato capivo la loro esigenza di poter procedere senza dubbi e nessuna falla prima di far iniziare il processo; dall’altro lato, era nostro compito mantenere un legame stretto con le famiglie, le vittime, i testimoni, soprattutto per rafforzare la loro fiducia nella giustizia, che ha dei tempi lunghi». In questo senso, la sentenza di un anno fa a Coblenza, ha aiutato tanto. «Uno shock e una sorpresa per tutti: negativamente per chi sostiene il regime e non si sente più sicuro di circolare, positivamente per chi si è affidato e fidato. Per poter dire che insieme ce l’abbiamo fatta». In Germania da ormai otto anni, Anwar al-Bunni ha dedicato e continua a dedicare tutta la sua vita alla giustizia per la Siria e le vittime della guerra civile ancora in corso nel Paese. Anche lui è stato un prigioniero politico dal 2006 al 2011, nella Siria pre-rivoluzione, e nel 2014 ha dovuto lasciare Damasco perché ricercato dal regime: a un appuntamento col fratello, hanno rapito lui per errore e Anwar ha capito che doveva scappare dal lì. A Berlino nel 2015 ha registrato l’associazione che aveva fondato dieci anni prima a Damasco, il Centro siriano per gli studi e le ricerche legali, un nome che al tempo voleva sviare il regime di Assad, non usando direttamente le parole “diritti umani” o “prigionieri politici”.

 

I tre processi in Germania sono stati e continuano a essere un buon esempio di come il principio della giurisdizione universale possa essere applicato. E sono anche di incoraggiamento per gli altri Paesi, come l’Olanda, dove il procuratore generale è stato contattato dal Centro siriano per gli studi e le ricerche legali, da Berlino, al momento giusto. «Una delle vittime e futuro testimone di un processo che si aprirà presto ha seguito per anni gli spostamenti del suo carnefice dalla Siria al Libano, alla Turchia, alla Grecia, dove è rimasto un anno, fino a quando è arrivato in Olanda e…tac, il nostro dossier era già pronto per far partire il caso», racconta al-Bunni. La sua collega Sara — come gli altri del Centro, nel loro piccolo ufficio di una stanza — nel frattempo sostiene il testimone a Berlino: «Il razzo che ha ucciso suo figlio, ha ferito anche lui. Sono fiera che abbiamo accompagnato le vittime, soprattutto per assisterle quando vedono la persona che ha compiuto il crimine a processo». Per Sara non è importante solo a livello individuale, ma collettivo. «Sono fiera soprattutto come donna: i diritti delle donne, infatti, fanno parte di quelli umani e sento che le donne portano avanti la giustizia, interessandosi ai dettagli che servono per queste cause. La giustizia è dentro di me, ma sento che questa lotta non è per me: è per tutta la società».