L’amicizia viscerale con Leonardo Sciascia, scandita da immagini tragiche e potenti. Compresa l’ultima, rimasta nascosta per decenni. Ma anche la scrittura come salvezza, l’ossessione per i libri. L’artista si racconta al regista

La nostra chiacchierata comincia dalla persona che ci ha fatto incontrare quarant’anni fa: Leonardo Sciascia. In tutta evidenza, per Ferdinando Scianna un secondo padre. Lo scorso anno si è molto parlato dello scrittore di Racalmuto, e direi a proposito e a sproposito. L’aspetto terribile degli anniversari è che i celebrati vengono seppelliti da una forma di giubilazione nefasta, in cui i nemici e i detrattori finiscono con l’imitare la voce degli ammiratori.

 

Che cosa le ha lasciato Sciascia?
«Gli anniversari sono quasi sempre l’occasione per i più sorprendenti fraintendimenti. È accaduto anche a Sciascia. Tra pochi giorni compio settantanove anni. Quando ho conosciuto Sciascia ne avevo quasi venti. Aveva visto la mia prima mostra al circolo culturale di Bagheria, in cui esponevo le mie fotografie di feste popolari siciliane. Mi riferirono che gli erano piaciute. Dopo qualche mese, andai a trovarlo nella sua casa di campagna a Racalmuto e quell’incontro cambiò la mia vita. Mi portavo dietro una autentica enciclopedia di ignoranza. Non sapevo niente di Leonardo; in realtà non sapevo niente di niente. Le cose che mi disse ebbero un’influenza addirittura retroattiva sulla mia maniera di concepire la vita e la fotografia. Grazie a lui nacque il mio primo libro con quel suo testo memorabile: “Feste religiose in Sicilia”. Avevo ventun anni. Da quell’incontro e da quel libro è nato tutto. Un padre, in effetti, un maestro, un amico irripetibile. Quello che mi ha lasciato, dopo ventisei anni di amicizia, è la parte migliore di quello che sono, soprattutto quello che lui era».

 

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Nella bellissima mostra che le ha dedicato Milano, “Viaggio racconto memoria”, a Palazzo Reale, c’è una sua foto che sino ad ora non aveva mai mostrato. Una foto che lui stesso le ha chiesto di fargli. Un’immagine che mi ha fatto un’impressione terribile. Indica una consapevolezza della fine e sigla un rapporto speciale con lei, sino all’ultimo.
«Non mi aveva mai chiesto in tanti anni di fargli una fotografia, e negli anni gliene ho fatte più di mille. Mai per lavoro: era l’album di famiglia della nostra amicizia. Era a Milano dove era venuto a curarsi della sua terribile malattia. Era in maglietta da camera e si era fatto tagliare i capelli molto corti. Improvvisamente mi chiese di fargli un ritratto. Capii subito il significato tragico di quella richiesta. Me ne hai fatte tante, fammi questa: l’ultima. Un autoritratto da condannato a morte. Come dice lei, con una terribile consapevolezza. Quindici giorni dopo tornò a Palermo per morirvi. Non ho mai fatto vedere a nessuno quella foto. Nemmeno a lui, nemmeno alle sue figlie. Ecco, mi ha lasciato anche questa fotografia. Un sigillo per la nostra amicizia».

 

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Si può dire che la sua traiettoria di fotografo sia segnata da un filo rosso che lega tutto quello che ha fatto. Ed è proprio il volto di Sciascia fissato nell’arco della vostra amicizia, un’opera incredibile, talmente speciale da andare oltre la fotografia. Non so se tutte queste fotografie un giorno confluiranno in un libro, me lo auguro, ma voglio chiederle che senso attribuisce al mandato speciale che uno scrittore così consapevole e avvertito sul valore della fotografia ha voluto consegnarle. Uno scrittore che aveva la civetteria di non nascondere d’essere anche superstizioso. Un patto simile è accaduto anche a Pasolini con Dino Pedriali.
«Ho vissuto molto male la morte di Leonardo. In maniera molto nevrotica. Una specie di rifiuto per qualcosa di irreparabile, sino al rancore per l’abbandono. Un rifiuto di elaborazione del lutto che è durato molti anni e forse non è mai finito. Ha continuato a essere presente nella mia vita, nei miei pensieri, nei miei sentimenti, ma soltanto trenta anni dopo la sua scomparsa, spinto dagli amici e dalle figlie ho tentato di farne un libro. Era pronto. Ma alla fine mi è sembrato molto inadeguato per rapporto ad una esperienza umana così fondamentale per me. E, mi illudo, anche per lui. Alla fine, ho deciso di non pubblicarlo. Magari un giorno, se avrò ancora tempo e energia, ci rimetterò le mani. La mia ossessione di uomo e di fotografo sono stati i libri. Ma non tutti i libri si possono e si devono fare. Sì, Pasolini, Pedriali. Non conosco molte esperienze di rapporto tra due uomini così radicali, così essenziali».

 

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La morte è una delle tracce profonde della fotografia. Lei racconta del fotografo di Bagheria, Coglitore, che suscitò una bellissima definizione a suo padre: “Fotografo, uno che ammazza i vivi e resuscita i morti”. Eppure, vedendo in sequenza le sue fotografie, Scianna, questa traccia di morte appare sommersa dalla prorompente vitalità che ognuna di esse emana.  È fuor di dubbio che a lei interessi di più la vita. Ed è evidente che ha fatto il fotografo per testimoniare la realtà, ma chi contempla le sue foto ne ricava un’idea fortemente barocca, in cui le apparenze, le ombre, il nero contrastano la luce e ogni eventuale postulato di chiarezza. Vi si insinua un lampo morale, una sorta di increspatura teatrale, a tutti gli effetti tragica. Da qui mi sembra che nasca la sua voglia di accompagnare le foto con la scrittura, creando un ponte tra le parole e le immagini, lasciando che l’una sconfini nell’altra.
«Non ho mai avuto un grande interesse per la morte, ancora meno paura, mi illudo. Temo e mi addolora soltanto la morte degli amici. Troppi negli ultimi tempi. La morte, per quanto la si possa snobbare, è lì, fin dall’inizio, al traguardo di tutto. È certo al centro della fotografia. La frase di mio padre nasceva dal fatto che a Bagheria, quando lui era bambino, c’era un solo fotografo. Molti vecchi non si erano mai fatti fotografare. Quando morivano chiamavano Coglitore, il quale fotografava il cadavere e poi, con grande perizia, gli ricostruiva gli occhi sulla lastra. Quando mostrava quelle foto, invariabilmente commentava: non pare vivo? È campare, vivere che mi interessa. Sono stato troppo ossessionato dall’inesauribile spettacolo della vita. Spettacolo, appunto, teatro. Tragico, certo, ma anche comico, non per niente sono figlio dell’universo siciliano, mondo drammatico e vitale. La luce e il lutto, ha scritto Gesualdo Bufalino. Ho vissuto in Sicilia ventitré anni. È lì che ho riempito la cassapanca della memoria di quello che sono diventato e alla quale tutti torniamo, dovunque poi tu viva, qualunque cosa faccia. Forse ho fotografato la Sicilia dovunque sia andato, per sessanta anni, a fare fotografie. A partire dalla luce, appunto. Molti hanno notato, soprattutto gente del nord, che le mie fotografie sono dense, scure. Il fatto è che da noi il sole non è solo una faccenda metereologica, è un destino. Sontuoso e pericoloso. Come la Storia. Io parto sempre dall’ombra. Il sole mi interessa, continuo a ripetere, perché fa ombra. Ho fatto, fra i tanti, forse troppi, un libro e una grande mostra sul tema del sonno. Un “progetto” che non ho saputo nemmeno, per molti anni, che mi abitasse. Da reporter quale sempre mi sono considerato, esitavo sul titolo. Il fatto, la cosa vista, mi ripetevo. Poi ho considerato che gli scrittori, quando parlano del sonno sempre lo mettono in relazione col sogno. Allora ho usato la celebre frase dell’Amleto: “Dormire, forse sognare”. Mi è servito a capire che in fondo il sogno, quello che c’è dietro il fatto, e dentro di te, era per me altrettanto importante. E il sogno, per un fotografo, è nella forma. Scrivere, quando il corpo ha cominciato ad abbandonarmi, mi ha salvato la vita. Ho cominciato a fare libri in cui i testi non fossero didascalie delle foto né le foto illustrazioni dei testi. Ma rimango un fotografo che scrive».

 

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Come saprà, sto facendo un film che s’intitola “La stranezza intorno al Pirandello dei Sei personaggi in cerca d’autore”, con Toni Servillo, Salvo Ficarra e Valentino Picone.  Si svolge nel 1920, nel corso del viaggio che Pirandello fece in Sicilia per andare a celebrare gli ottant’anni di Giovanni Verga, con quel discorso sulla distinzione tra scrittori di cose e scrittori di parole che a me sembra risuonare potente anche per la fotografia. Lo pensa anche lei?
«Sciascia ripeteva sempre questa frase di Pirandello. Scrivere di quello che è necessario. Me lo ha insegnato. Cartier Bresson diceva che non c’è nulla di più inutile di una bella fotografia. Non ho mai fatto fotografie per fare fotografie. Sempre ho cercato di raccontare degli uomini, delle cose».

 

Vincenzo Consolo era affascinato da certe mie idee sulla fotografia siciliana, a mio parere un perfetto compendio filosofico del nostro difficile, se non impossibile, rapporto con la realtà, e mi sollecitava a scrivere un libro che io non ho mai scritto. Sto però facendo i conti con la fotografia in altro modo, per esempio con il film televisivo che ho fatto su Letizia Battaglia, “Solo per passione”. Mi interessava il romanzo della sua vita straordinaria e l’esito finale con cui ha contestato la funzione della fotografia. Una contestazione che ha finito per rappresentarne una sorta di eroica esaltazione. Le è mai capitato di avere stanchezza o rifiuto della fotografia?
«Difficile, in effetti, se non impossibile compendio del nostro rapporto con la realtà. La fotografia ha rivoluzionato radicalmente la nostra relazione con il mondo. Ci ha fatto credere che questa relazione con la realtà fosse possibile. Il fotografo riceve la realtà, la legge, non può, e secondo me non dovrebbe, “inventarla”. In meno di cento anni il suo ruolo storico culturale mi sembra radicalmente cambiato, se non tramontato. Oggi, per molte ragioni, anche la fotografia mi sembra diventata musica di fondo, rumore narcisistico. Sì, a un certo punto, la passione per la fotografia, che per oltre mezzo secolo ho vissuto come ossessione, si è trasformata; fino quasi al rifiuto, a un certo punto. Forse è stata anche la stanchezza del corpo. Ma soprattutto, credo, questa alluvionale e indiscriminata perdita del suo ruolo di memoria. Mai si sono prodotte tante immagini fotografiche, ma nessuno fa più l’album di famiglia, per esempio. Uno dei più grandi monumenti culturali alla memoria che ha prodotto la fotografia. Album privati, ma anche album collettivi che hanno definito la vita e l’immaginario di generazioni». 

 

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Daniele Del Giudice sosteneva che si dovesse ripensare buona parte della filosofia e della teologia come filosofia e teologia della luce, dato che la distinzione tra luce e tenebra in principio era la distinzione etica per eccellenza, tra bene e male, tra ciò che era originale e ciò che era riprodotto, tra vero e falso. E concludeva che oggi la luce “al termine del suo viaggio, è ormai un elemento antropologico, forse l’elemento della più radicale mutazione antropologica del nostro tempo”. Ciò che guardavamo, scrive Daniele, erano le cose illuminate da una luce riflessa o radente, noi vedevamo nella lontananza della sorgente, e il nostro sguardo lavorava nella penombra. Oggi gli oggetti che usiamo sono oggetti di luce, e tutto dev’essere visibile in qualunque istante a prescindere dalle condizioni di luce, ogni oggetto produce da sé la propria. Che cosa distingue oggi un buon vedere da un cattivo vedere, e cosa è cambiato per il fotografo con la fine della luce radente?
«Non conoscevo questo pensiero di Del Giudice, uno scrittore che ho incontrato e fotografato. Mi ha impressionato questa riflessione così pertinente e profonda sulla luce, specialmente in un uomo che troppo presto ha vissuto la catastrofe della sua coscienza inghiottita dal buio. Nel tipo di fotografia che ho praticato non scelgo la luce. La incontro. Sì, è vero, ogni oggetto produce una luce propria. Mi appassionano tutte. Ma se pure, diversamente da un pittore, un fotografo non decide la luce delle sue immagini, comunque, se è un buon fotografo, tutte le sue immagini contengono la propria. Forse è soprattutto questo che li distingue: la lingua della luce».

 

Che cos’è per te oggi la fotografia? È ancora un mezzo che come sosteneva Julio Cortazar consente un’apertura sorprendente e rivelatrice nel visibile, o aveva ragione Thomas Bernhard a dirne come di un’arte che è divenuta la più ignobile e mistificatoria?
«Paradossalmente, le cose più interessanti e profetiche sulla fotografia credo le abbiano scritte quelli che la detestavano: Baudelaire, Bernhard. Ma aveva ragione anche Cortazar. Molti uomini, non molti fotografi, continuano a crederlo. Io sono tra questi».