A un anno dall’allarme degli ingegneri ministeriali sullo stato dei meccanismi sotto l’acqua, nulla è cambiato: la ruggine nella maxi opera che dovrebbe salvare la città lagunare avanza. Intanto il completamento slitta ancora, nonostante il sollevamento in via sperimentale. E i costi, che inizialmente erano di un miliardo e mezzo, lievitano

«Il Mose? Lo finiremo nel 1995». La solenne promessa, pronunciata dal doge della prima Repubblica Gianni De Michelis, risale al 4 novembre 1988, il giorno del varo del Modulo sperimentale elettromeccanico che solcava in quei giorni le acque del bacino San Marco. Un sogno svanito presto. E nuovi traguardi annunciati con enfasi dai governi di ogni colore che si sono susseguiti negli ultimi trent’anni. «Lavori finiti nel 2011», assicurano il premier Berlusconi, il ministro Lunardi e il governatore Galan alla posa della prima pietra nel 2003.

 

Ma l’asticella si sposta sempre più in alto. «La data ultima? Il 2016», secondo il ministro Maurizio Lupi. 31 dicembre 2021 per i governi di Conte e Draghi. Ma anche quella dead line è passata e il nuovo annuncio della settimana scorsa non fissa la parola fine di questa storia. Il Mose si solleva in via sperimentale. Per ultimarlo e ripararne i guai ci vorranno ancora anni. E il costo della grande opera è passato dal miliardo e mezzo di euro del progetto preliminare ai 6 miliardi e mezzo di oggi. I ritardi si accumulano, nonostante la nomina di commissari straordinari dotati di pieni poteri. I cantieri sono fermi, la manutenzione mai partita. E la corrosione sott’acqua avanza.

 

Esattamente un anno fa L’Espresso lanciava l’allarme sullo stato di corrosione dei meccanismi sott’acqua. Le cerniere che tengono agganciate le paratoie alle basi in calcestruzzo, sul fondo della laguna alle tre bocche di porto che mettono in comunicazione Venezia con il mare. Gli allarmi sullo stato dell’opera, lanciati dagli esperti corrosionisti del ministero Susanna Ramundo e GianMario Paolucci, sono stati ignorati per anni. E gli ingegneri si sono dimessi.

 

Un anno dopo, cosa è cambiato? «Nulla», commenta oggi l’ingegnere Susanna Ramundo, professionista coraggiosa che aveva denunciato lo stallo dei lavori. La manutenzione che allora si riteneva urgente non è mai partita. Una gara da 64 milioni già assegnata (a Fincantieri, concorrente unica) è stata annullata. Nel frattempo la Guardia di Finanza indaga, la ruggine avanza.

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La commissaria del Mose, l’ex dirigente del Demanio Elisabetta Spitz, ha affidato una nuova perizia a un ingegnere francese, Nicholas Larchè dell’Istituto della corrosione di Brest. È venuto in laguna due giorni, nel settembre scorso, e ha redatto la sua perizia. I risultati dello studio sono stati secretati. La sintesi è che la corrosione esiste, ma non è preoccupante. «Basta ungere i meccanismi con del grasso e fare ispezioni periodiche ogni tre mesi». Ramundo non ci sta. «Mai nella mia vita mi è capitato di vedere secretato uno studio tecnico pagato con soldi pubblici», dice: «E mai ho visto prendere per oro colato conclusioni tecniche senza discussioni tra le parti, ogni voce terza è stata tacitata fulmineamente, impedendo la presenza di esperti del Provveditorato all’ispezione».

 

Non è una questione accademica. Perché da quelle indagini dipende la corretta manutenzione dell’opera e la sua tenuta negli anni futuri.

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«Dopo la tragedia del ponte Morandi a Genova e il crollo di numerosi viadotti e infrastrutture ci si aspettava una grande consapevolezza nel cosa fare, e grande trasparenza sulle risultanze delle investigazioni tecniche», aggiunge Ramundo, che ha partecipato in qualità di esperta ad alcune di quelle indagini. II punto debole della struttura del Mose sono i cosiddetti «steli tensionatori». Cioè le barre con cui gli elementi femmina delle cerniere (fissate nel cassone sul fondo) sono collegati con l’elemento maschio della paratoia.

 

Il degrado dei materiali era apparso e certificato già nel 2016, poi nuovamente nel 2018, con perizie commissionate dal Consorzio e provveditorato alle opere pubbliche. La perizia certificata, detta anche «stato di consistenza» è come l’agibilità di un edificio: va certificata da enti preposti e non da un singolo professionista, se pur iscritto a un albo professionale. Nel giugno del 2021, dopo un sopralluogo al Mose di Chioggia, il nuovo allarme. A lanciarlo è il professor Francesco Ossola, dal 2014 al 2020 commissario straordinario del Consorzio Venezia nuova, oggi richiamato come consulente tecnico dalla commissaria Spitz. «È necessario ripetere perizie certificate su tutte le paratoie alle tre bocche di porto», aveva detto preoccupato. Ma anche allora non era successo nulla.

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«Anzi, tre mesi dopo si viene a sapere che non c’è da preoccuparsi. Ma quei documenti certificati sono stati consegnati al consulente francese?», si chiede Ramundo: «E poi, come è possibile concludere uno studio dopo un sopralluogo di due giorni quando per verificare lo stato degli steli - e nel Mose ce ne sono 156, due per ogni paratoia - sono necessari dei mesi».

 

Il consulente francese dunque, secondo l’esperta corrosionista, ha redatto una fotografia molto limitata dell’esistente. Quello che manca e non è ancora stato fatto, accusa Ramundo, è l’attualizzazione dello stato di consistenza certificato, per arrivare poi alla predizione della sua vita residua. Cioè stabilire sulla base dei danni da corrosione attuali quando si potrebbe verificare una rottura grave. Certificati necessari anche per la futura stipula di assicurazioni, se la gestione del Mose sarà affidata ad enti terzi.

 

Nel progetto originale si parla di una durata di cento anni. Ma molti degli elementi, in acqua da molto tempo, devono già essere sostituiti. «È il caso, ad esempio, delle scatole di congiunzione che portano segnali continui in sala controllo dello stato di protezione catodica delle paratoie sott’acqua. Il 60 per cento di questi sono fuori uso». I danni li fa anche la mancata aerazione delle gallerie. Gli impianti di condizionamento previsti dal progetto non sono mai stati conclusi.

 

Ritardi e omissioni che adesso fanno aumentare il conto dei danni. Sulle responsabilità sta indagando la Guardia di finanza. Ma anche la Corte dei conti nella sua ultima relazione del 15 marzo scorso segnala che «la situazione di stallo non si è ancora conclusa e permangono criticità irrisolte soprattutto per il sistema degli impianti e dell’automazione, la control room, il Piano Europa», cioè gli interventi per il riequilibrio della laguna.

 

Ritardi che ognuno addebita a qualcun altro. La nuova direttrice di Dipartimento del ministro delle Infrastrutture Ilaria Bramezza - già direttrice in Comune con Paolo Costa e in Regione con Luca Zaia - ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, nell’estate scorsa, il Provveditore alle opere pubbliche del Triveneto Cinzia Zincone. Da dieci anni ai vertici degli uffici del ministero, mai coinvolta nello scandalo del Mose. Zincone ha fatto ricorso e presentato un esposto al giudice del Lavoro e alla Corte dei conti.

 

A Venezia intanto tutti attendono di vedere concretizzata la nuova Autorità per la laguna, organismo che dovrebbe unificare le competenze sulle acque e far sciogliere il Consorzio Venezia nuova. Varata dal governo Conte alla vigilia di Ferragosto del 2020. Bloccata nei cassetti perché Regione e Comune ne contestano l’impianto «troppo centralistico».

 

Proposta che divide anche il governo. Con Giovannini e il suo entourage del ministero da una parte, il ministro veneziano Renato Brunetta e il consigliere di Draghi Francesco Giavazzi dall’altra. «Troveremo un punto di equilibrio», annunciano.

 

Ma intanto tutto va avanti come prima. Il Mose è affidato alla commissaria. Il Consorzio Venezia nuova, concessionario monopolista travolto dallo scandalo del 2014, al commissario liquidatore, il commercialista Massimo Miani. Il suo piano di risanamento adesso ha salvato il Consorzio dal fallimento. In cambio sono stati condonati i debiti alle grandi imprese. È stato firmato un nuovo Atto della convenzione del 1991 (il settimo) che conferma l’aggio del 12 per cento spettante su ogni lavoro al Consorzio. In passato, ai tempi della gestione Mazzacurati, un fondo che veniva impiegato non sempre per finalità di salvaguardia. Debiti condonati, azzerate le cause per i danni di immagine provocati allo Stato con lo scandalo delle tangenti. E abbonate anche le penali per i ritardi nella consegna dei lavori.

 

L’Atto firmato nel gennaio scorso tra lo Stato e il suo concessionario prevede un nuovo cronoprogramma, l’ennesimo. La fine dei lavori slitta al 2026 per le conche di navigazione e la manutenzione.

 

La storia del Mose non è finita. È stato azionato con successo nell’inverno scorso in occasione di acque alte, con il sistema manuale, non ancora automatizzato, ed elevatissimi costi di personale. Ma non ancora sperimentato in condizioni estreme, come l’alluvione del 4 novembre 1966 o quella più recente del 12 novembre 2019. E la sua manutenzione, piccola grande opera da almeno 100 milioni di euro l’anno, non è mai partita. Le paratoie di Treporti, inaugurate pochi mesi prima degli arresti per corruzione del giugno 2014, sono sott’acqua da nove anni. Un’opera pensata per vivere sotto l’acqua del mare, senza manutenzione, non potrà durare a lungo. Per il cambiamento climatico e l’aumento del livello del mare dovrà essere azionata quasi ogni giorno, e dunque essere in piena efficienza. E con la laguna sempre chiusa, avvertono gli scienziati, aumenteranno anche i danni ambientali e quelli all’economia del porto. Ma questo è un altro capitolo.