La legge di bilancio è in buona parte “draghiana” e dal documento sono sparite le misure promesse dal centrodestra ai suoi elettori. Tutte le risorse andranno a pagare gli interessi sul debito. La resa dei conti è rinviata al 2024

Di identitario è rimasto il condono per le piccole cartelle, la “pace fiscale” come la chiama Salvini (come se fosse in corso una guerra fra cittadini e Stato sulle tasse) di cui non è facile stabilire i costi, ma che certamente sarà un’operazione in negativo per lo Stato visto che le cartelle in questione valgono più di 1000 miliardi e secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio non si riuscirà a recuperarne con il condono più del 5-6%. Ma che fine ha fatto la flat-tax, che sarebbe costata non meno di 55 miliardi secondo i centri studi più accreditati? E l’abbattimento della legge Fornero, 40 miliardi entro pochi anni? E il taglio del cuneo fiscale di cinque punti (16 miliardi)? Il costo totale delle promesse elettorali che hanno fruttato al centrodestra 12 milioni di voti e una maggioranza schiacciante superava i 100 miliardi.

 

La montagna, una volta acquisito il risultato elettorale, ha partorito il classico topolino: alla prima prova “dal vero”, la legge di Bilancio varata nella notte del 21 novembre, dei provvedimenti bandiera del governo è rimasto poco. Alle elezioni hanno vinto quelli che l’hanno sparata più grossa, ma ora tirano a salve. Il grosso della manovra da 35 miliardi è stato assorbito dal rinnovo delle misure d’emergenza contro il caro-energia del governo precedente: i bonus di 200 euro a famiglia (la platea è stata allargata dall’Isee a 12mila a quello a 15mila), quelli edilizi (il 110% è stato sostituito da un 90% non più per tutti ma con un barrage a 25mila euro di reddito), il taglio degli “oneri di sistema” e dell’Iva sul gas, e poi tutti gli altri interventi di sostegno fino ai crediti d’imposta per le imprese energivore. E i maxi-provvedimenti annunciati? Non c’è grande rivoluzione che non sia evocata ma poi attuata solo in minima parte: della flat tax si è salvato l’innalzamento da 65 a 85mila euro della soglia del 15% per gli autonomi, per le pensioni è rimasta in vigore la legge Fornero tranne che per chi si trovi ad avere l’anno prossimo 62 anni di età e 41 di contributi (peraltro solo questa piccola misura costerà intorno al miliardo all’anno).

 

Ancora: per il taglio al cuneo fiscale (cioè la fiscalizzazione di un certo ammontare di contributi oggi in carico al lavoratore e/o all’azienda), si è passati dai due punti di taglio già garantiti da Draghi a tre, meno dei 5 promessi e chiesti dalla Confindustria con toni sempre più ultimativi («vogliamo un intervento-shock», ha tuonato fino alla vigilia Carlo Bonomi come se gli fosse dovuto). Contributi che, summa iniuria, sono destinati a finire tutti nelle tasche dei lavoratori, e questa da un governo di destra gli industriali davvero non se l’aspettavano. «Scusate, bastava guardare la nota di integrazione alla Nadef che il ministro Giorgetti aveva predisposto pochi giorni prima della manovra per accorgersi che erano già sparite le spese pazze di cui si favoleggiava in campagna elettorale», osserva Giampaolo Galli, docente alla Cattolica e direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici. «Dopo un documento di base così “draghiano” è stata conseguente una legge di Bilancio restrittiva. Semplicemente, si è scesi sulla Terra. Speriamo che ci si resti e non si ricominci subito con le promesse roboanti».

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Il problema vero, che sta animando le polemiche post-Finanziaria e che porteranno il Pd a scendere in piazza il 17 dicembre con il Terzo Polo per una volta unito nonché, pare, ai 5S di Giuseppe Conte, invelenito dai ritocchi al reddito di cittadinanza, è la mancanza assoluta di sviluppo: Draghi ci aveva insegnato che una legge Finanziaria, come ancora a tanti piace chiamarla, può anche essere uno strumento di sviluppo, persino in tempi difficili come questi scansiti dalla doppia emergenza pandemia-guerra.

 

La legge di Bilancio per il 2022 conteneva per esempio 32 miliardi di opere pubbliche per il triennio, approvate dal Parlamento senza un graffio e aggiudicate nel corso dell’anno, integrate con altri 61 miliardi di infrastrutture finanziate dal Pnrr. Un contributo reale e coerente con lo sviluppo.

 

Nulla di tutto questo nella manovra per il 2023. Né provvedimenti di crescita, né misure bandiera velleitarie e dannose. Cos’è accaduto? Un alert occulto da Bruxelles, una resipiscenza di paura, un mindwashing di realismo finanziario? «È una manovra quasi incolore quanto a impatto delle scelte più simboliche ma questo non è detto che sia un male. Di certo, gli interventi sono molto lontani da una visione complessiva e da un programma di governo», commenta Serena Sileoni, docente all’università Suor Orsola Benincasa di Napoli. «È la differenza tra fare politica e governare». Insomma, misure tanto epocali quanto accostate a caso di cui non si comprende il disegno di fondo. «Diciamo - dice Sileoni - che Giorgia Meloni sa di non avere molti margini di manovra e ha scelto, visto che vuole continuare a governare per i prossimi anni, di mantenere i piedi per terra. Già dall’opposizione invitava gli alleati a non fare promesse impossibili e arrivò a sostenere Draghi nel non volere scostamenti di bilancio, sapendo che il maggior debito sarebbe ricaduto sul suo governo. Tutto questo potrebbe essere interpretato come un segno di debolezza, a meno che il disegno politico del governo e della premier non sia proprio quello di improntare la propria azione a un maggior realismo».

 

L’economista Nicola Rossi dell’Università di Roma 2 apre un po’ di credito: «La nostra destra era un unicum mondiale: ovunque, con la sola eccezione recentissima e già rientrata della Gran Bretagna, i partiti di centrodestra sono visti come i bastioni del conservatorismo e della solidità nell’economia, e al contrario sono le sinistre a sognare grandi interventi pubblici. Invece qui era la destra a proporre le misure più costose e avventurose. Sennonché ora è rientrata nei ranghi con un approccio che lascia poco spazio alla fantasia. Rimane l’amarezza perché nei dieci anni precedenti non si è riusciti a creare spazi fiscali più confortevoli e maggiori risorse cui accedere: non parlo solo delle promesse più eclatanti ma di scuola, istruzione, sanità».

 

Per ora i più piacevolmente sorpresi sono stati gli investitori stranieri: «Bisogna chiedersi - dice Rossi - se questa manovra così prudente è stata fatta solo per tenere buoni i mercati o se invece la disciplina di bilancio è entrata nel Dna dell’esecutivo Meloni e potremo celebrare la nascita di una “normale” destra di governo, occidentale ed europea».

 

La partita non è chiusa. Gli interventi anti-crisi energetica hanno da cartellino una durata di tre mesi a partire da gennaio. Poi si vedrà, e chissà se per allora la guerra non sarà finita. Per le pensioni, è difficile che Salvini rinunci al ruolo di vessillifero del “mandare tutti in pensione al più presto” ovvero l’esatto contrario di quanto demografia e logica economica suggeriscono (ha già minacciato: «Nel 2024 cambia musica»). Identico destino per la flat-tax: difficile che ci si accontenti di questo piccolo ritocco. «A parte la sensazione di incompiuta, a questo punto forse era meglio non fare nulla», argomenta Carlo Stagnaro, direttore scientifico dell’Istituto Bruno Leoni. «Si perpetua un’iniquità per cui chi guadagna 51mila euro ha il 43% di tasse se paga l’Irpef, il 15% se è autonomo, il 26% se il suo reddito deriva da investimenti finanziari, il 12,5% se ha Btp o buoni postali, il 21% di cedolare secca se incassa un affitto».

 

La resa dei conti è rinviata all’anno prossimo. Ma non sarà facile perché nel 2024 tornerà in vigore il Patto di Stabilità europeo e i criteri saranno più rigidi: «La Commissione vuole istituire un quadro giuridico e operativo che ridia credibilità e trasparenza al Patto - spiega l’economista Stefano Micossi della School of Government della Luiss - attraverso una nuova architettura di sorveglianza macro-prudenziale per la riduzione dei debiti sovrani eccessivi, basata su una rigorosa analisi di sostenibilità». Roba da far tremare le vene ai polsi di un Paese che ha il 150% di debito/Pil e non potrà più contare sull’appoggio della Bce: la presidente Christine Lagarde ha annunciato in questi giorni che non solo è finito il quantitative easing, l’acquisto dei Btp accumulati, ma comincia la vendita dei titoli che Francoforte ha accumulato. Per l’Italia è il 25% del debito. «In ogni caso, il segnale che si manda con questa legge di Bilancio all’Europa è di continuità della politica di bilancio che in un momento così delicato non può fare che bene», dice Micossi. E Federico Neri, ricercatore presso l’Ocpi, spiega: «Sarà comunque dura, in un contesto di tassi in aumento, finanziare per intero sul mercato il fabbisogno, che è di 420 miliardi nel 2023. Di questi, non più di 28,7 sono da ascrivere al Pnrr e quindi hanno tassi favorevoli, gli altri vanno collocati a prezzi di mercato».

 

La destra al governo comunque «deve fare ancora molta strada in direzione della democrazia economica», commenta Leonzio Rizzo, docente di Scienza della Finanze all’Università di Ferrara. «In una manovra così ricca di micro-misure ce n’è una che colpisce per la sua assenza, la lotta all’evasione fiscale. Eppure gli ultimi rapporti della commissione Santoro, che studia il problema presso il Mef, dicono che l’evasione degli autonomi ha sfondato il tetto del 60%».

 

Si fa l’esatto contrario, spiega Rizzo: «Si titillano gli evasori con il più che raddoppio del tetto sul contante da 2 a 5mila euro. Eppure, quando il tetto fu alzato da Renzi nel 2014 a 3000 euro (Monti l’aveva abbassato a mille dopo i fasti berlusconiani), la Banca d’Italia pubblicò uno studio che dimostrava in modo incontrovertibile che più denaro liquido in tasca corrisponde a più economia nera, più riciclaggio, più evasione». Lo studio indicava anche i costi: un punto di aumento del cash in circolazione, cioè ogni 1000 euro, si traduce in un incremento del sommerso fra gli 0,8 e gli 1,8 punti percentuali. I conti sono facili perché l’economia sommersa vale in Italia 200 miliardi, metà dei quali è evasione fiscale bella e buona. «Uno stretto controllo del contante è uno strumento efficace contro l’evasione», concludeva Bankitalia. Che non è un covo di pericolosi bolscevichi.