Una riga e mezza in finanziaria sulla cultura, niente per il Fondo statale (Fus) e nessuna copertura per la riforma del settore per coprire i vuoti occupazionali di artisti e lavoratori. Così l’esecutivo abbandona un intero settore

Nelle 110 pagine che compongono la manovra presentata dal governo, lo spazio dedicato alla cultura occupa appena una riga e mezzo. Riguarda i 20 milioni che l’esecutivo intende stanziare nel 2023 per «l’acquisto dei beni culturali». Una cifra minuscola al cospetto dei 35 miliardi che nel complesso sposta la finanziaria, soprattutto se si considera che per il 2023 il governo intende tagliare di 63,5 milioni il budget a disposizione del ministero della Cultura. All’appello mancano soprattutto due capitoli: il Fus, il fondo statale che dà ossigeno al mondo dello spettacolo, e la dote necessaria a mettere in moto una delle riforme più importanti degli ultimi anni in ambito culturale: l’indennità di discontinuità. Una svolta chiesta a gran voce dagli artisti scesi in piazza durante il biennio pandemico e ottenuta allo scadere della scorsa legislatura dopo anni di tentativi andati a vuoto.

 

«Sorprende che un governo dai tratti così identitari non stia prendendo in considerazione un settore così importante per il nostro Paese», dice Francesco Rossini, regista e membro del direttivo di Unita, associazione di categoria di cui fanno parte molti big dello spettacolo, da Pierfrancesco Favino a Caterina Guzzanti. Come le altre organizzazioni attive in ambito culturale, Unita nelle ultime settimane è in stato di agitazione per la mancanza dei fondi in manovra dedicati ad uno dei settori più colpiti dalla pandemia. «Siamo pronti a collaborare ma anche a mobilitarci». Durante il biennio 2020-2021 la filiera dello spettacolo ha subito un crollo senza precedenti. Secondo i dati di Federculture l’intero settore ha perso ben 55 mila posti di lavoro, nella maggior parte dei casi si tratta di giovani under 35. In più il tentativo della maggioranza di abolire il bonus cultura per i 18enni non ha fatto altro che mettere ulteriormente in allarme il settore.

 

L’iter delle manovra si concluderà tra Natale e capodanno. Il voto degli emendamenti potrebbe modificare il quadro. C’è ancora spazio, dunque. Ma per ora i 20 milioni del ddl scritto dal governo riguardano un ambito abbastanza ristretto. Fin da subito l’opposizione ha denunciato l’assenza di interventi in favore del Fondo unico per lo spettacolo, strumento attraverso cui lo Stato ogni anno eroga contributi per l’organizzazione di eventi. Come evidenzia la Slc-Cgil, il Fus ha subito un continuo calo di finanziamenti. «Nel giro di 37 anni - denuncia il sindacato - sono calati del 60 per cento, precipitando dallo 0,08 all’attuale 0,02 per cento del Pil». Sabina Di Marco, segretaria nazionale della Slc, parla di un «progressivo disinvestimento nella cultura». «Ad esclusione della dote stanziata nel 2021 - aggiunge - nel corso degli anni la situazione è andata peggiorando».

 

La legge di bilancio dell’anno scorso, infatti, aveva rimpolpato il fondo, portandolo a una dotazione ben più consistente rispetto agli anni precedenti. Quest’anno, all’interno della finanziaria non viene mai nominato. L’obiettivo del ministro sarebbe quello di riformarlo. Il governo, però, come si legge a pagina 103 della manovra, si riserva semplicemente di apportare «variazioni compensative di bilancio» in favore degli spettacoli dal vivo. Peccato che il budget ministeriale dedicato a quel capitolo subirà una decurtazione di 50 milioni euro rispetto al 2022. Di cifre aggiuntive a sostegno del comparto non ce ne sono, dunque. Come risulta assente qualsiasi tipo di impegno indirizzato ai lavoratori dello spettacolo, nonostante le parole spese dal ministro Gennaro Sangiuliano in varie occasioni pubbliche. Durante l’audizione davanti alla commissioni Cultura di Camera e Senato, ad esempio, il ministro si era impegnato a «farsi carico di una maggiore sicurezza sociale e previdenziale per gli artisti». E ancora: «Su questo punto mi adopererò compatibilmente con le esigenze generali di bilancio», aveva detto durante un question time alla Camera. Risultato: della legge delega approvata lo scorso 15 luglio in Parlamento non c’è traccia. O meglio: non c’è traccia delle dote finanziaria necessaria a sostenere la riforma.

 

Si tratta di un provvedimento che affonda le proprie radici nelle richieste che artisti e tecnici del mondo dello spettacolo hanno portato all’attenzione dei governi che si sono avvicendati nel corso degli anni. Durante la pandemia, lo stop delle attività culturali aveva lasciato i lavoratori del settore senza un reddito, mettendo in luce in maniera più evidente il carattere precario e discontinuo delle professioni connesse al mondo artistico. I lavoratori erano scesi in piazza per chiedere maggiori tutele e finalmente, sullo scadere della scorsa legislatura, il Parlamento aveva dato il via libera ad un disegno di legge che conferiva al governo le deleghe per attuare una riforma complessiva del settore, che tra le altre cose prevedeva il riconoscimento della discontinuità delle professioni artistiche e un’indennità mirata a “coprire” i momenti di inattività, studio o formazione fisiologici nelle professioni artistiche. «Al momento dell’approvazione l’accordo tra le forze di maggioranza era quello di finanziare la misura in legge di bilancio», spiega Matteo Orfini, deputato del Pd. Anche FdI - all’epoca all’opposizione - aveva collaborato a scrivere la riforma. «Stanziare zero fondi significa ucciderla», insiste l’esponente dem.

 

Secondo la Slc-Cgil, in fase di avviamento sarebbero necessari almeno 150 milioni. «Dopodiché - spiega la segretaria Di Marco - la misura sarà in grado di autofinanziarsi attraverso i contributi versati dai lavoratori». Anche un emendamento alla manovra presentato dal Pd prevede uno stanziamento di 150 milioni per il 2023. Un’altra proposta avanzata dall’Alleanza Verdi e Sinistra prevede una dote ancora più consistente. L’incognita più grande, però, riguarda le coperture a disposizione. L’obiettivo della premier Meloni è quello di snellire il più possibile la manovra, guardandosi bene dall’accogliere anche le numerose richieste provenienti dai suoi stessi alleati. La coperta, in sostanza, è corta. Soprattutto per le richieste provenienti dall’opposizione. Ma come prevede la legge delega, il governo ha nove mesi di tempo a partire da luglio per attuare la riforma sullo spettacolo. Numeri alla mano, dopo l’approvazione della manovra mancheranno solo due mesi.