I mega impianti in orbita potrebbero essere presto realtà e le superpotenze già si sfidano. Anche l’Europa è in campo con due suoi progetti. Ma ci sono da superare degli enormi ostacoli tecnici ed economici

La prima si chiama Cassiopeia. È una cattedrale orbitante da duemila tonnellate, una struttura elicoidale costituita da 61mila strati di pannelli in grado di convertire in elettricità i raggi solari, raccolti da due specchi, per poi spedirli sulla Terra sotto forma di microonde. Posizionata in orbita geostazionaria, 36mila chilometri oltre il cielo, Cassiopeia non scompare mai oltre l’orizzonte ed è sempre orientata verso le antenne terrestri, le «rectenne».

 

L’altra è Sps-Alpha. L’ha progettata l’ex fisico della Nasa, John C. Mankins, e sempre in orbita geostazionaria occupa una superficie di 15 chilometri quadrati, con un diametro di circa quattro. Ha una capacità di 2 gigawatt (GW). I sistemi promettono di soddisfare fra il 10 e il 20 per cento del fabbisogno energetico europeo annuo. Peccato non esistano.

 

Meglio, non esistano ancora, visto che l’Agenzia spaziale europea (l’Esa), a fronte di due valutazioni di costi e benefici affidate allo studio inglese Frazer-Nash Consultancy (Cassiopeia) e alla tedesca Roland Berger (Sps-Alpha), punta nel 2025 a proporne lo sviluppo ai 22 Paesi membri, con lo scopo di costruirle.

 

Si chiama “Solaris” ed è il programma con cui l’Esa intende fornire una fonte ecologicamente sostenibile, accessibile e pulita all’Europa in modo da soddisfare il suo crescente fabbisogno energetico e azzerare le emissioni inquinanti nette entro il 2050.

 

Lungi dalla fantascienza, la possibilità di raccogliere l’energia solare dallo spazio, cosiddetta “Space based solar power” o Sbsp, è un’idea considerata promettente dagli anni ’60. Ne teorizzò lo sfruttamento l’ingegnere aerospaziale Peter Glazer, che in un articolo pubblicato su “Science” il 22 novembre del 1968 ipotizzò che la futura espansione, se non la sopravvivenza, del genere umano sulla Terra sarebbe potuta dipendere dalla capacità di usare le fonti alternative. La migliore, per disponibilità pressoché illimitata, era e sarebbe stata l’energia solare. In particolare se prelevata oltre l’atmosfera, dov’è più intensa, e poi inviata alle reti di distribuzione terrestri tramite connessione wireless (o Wtp).

 

Sebbene ai tempi fosse tecnologicamente impossibile, oggi sono molti i Paesi decisi a dimostrare che Glazer avesse ragione: in palio non c’è tanto la chiave della crisi coeva, quanto quella del nirvana energetico dei prossimi decenni. Come sottolinea il Citi nel rapporto “Space. The Dawn of a New Age”, pubblicato lo scorso maggio, «secondo il Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, la quantità di energia solare che colpisce la Terra in un’ora è maggiore di quella che il mondo intero consuma in un anno (430 quintilioni di joule)». Lo ribadisce la relazione tecnica di Roland Berger per l’Esa: sempre che tutto proceda come previsto, Cassiopeia potrebbe produrre «800 TWh all’anno entro il 2050». Oppure, nel caso di Sps-Alpha, «un sistema Sbsp con una capacità di 2 GW produrrebbe circa 15,78 TWh annui. Per soddisfare il 10 per cento della domanda lorda di elettricità dell’Unione Europea, pari a circa 3.500 TWh nel 2050 (scenario di riferimento UE 2020), sarebbero necessari fra i 20 e i 25 sistemi Sbps operativi, con una produzione totale di elettricità di 314-390 TWh». Tradotto in soldoni e considerati gli investimenti per costruirla, lanciarla, manutenerla e farla funzionare (in tutto 418 miliardi di euro), la sola Cassiopeia prometterebbe un valore netto dei profitti fra i «149 e i 262 miliardi, con il valore del caso centrale di 183 miliardi di euro tra il 2022 e il 2070». I costi, scalabili, diminuirebbero dal primo impianto ai successivi.

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Non è un caso se l’energia solare dallo spazio stia già attraendo l’iniziativa e i giganteschi investimenti di Paesi come Cina, il più avanzato di tutti, e Stati Uniti. Ma altrettanto significativo, bene ribadirlo, è che si tratti di progetti, cioè solo di piani: le sfide tecnologiche imposte da colossi come Cassiopeia o Sps-Alpha sono ancora tutte da vincere. La loro complessità sarebbe evidente anche solo confrontandone le dimensioni con quelle della Stazione spaziale internazionale, a oggi l’architettura più grossa mai realizzata in orbita, estesa quanto un campo di calcio e pesante «solo» 420 tonnellate (per gli Sbps si parla di chilometri quadrati).

 

Detto altrimenti, come gli studi dell’Esa sottolineano, per costruire le strutture previste, non solo sarebbe necessario farlo in orbita e per questo aumentare a dismisura la frequenza dei lanci, moltiplicando di oltre 200 volte la nostra attuale capacità di trasporto spaziale e ipotizzandone una drastica riduzione dei costi, ma occorrerebbe «sviluppare la tecnologia associata ai sistemi robotici e autonomi nello spazio […] Considerando l’elevato numero di questi sottosistemi, saranno indispensabili procedure operative autonome supportate da un’adeguata intelligenza artificiale e da capacità di elaborazione dei dati». Il tutto senza dimenticare altre criticità, come lo sviluppo di una trasmissione energetica wireless ad alta efficienza e lunga distanza – «a oggi il Naval Research Laboratory degli Stati Uniti sta testando la trasmissione a livello di kW su una distanza di 1,6 chilometri di frequenze a microonde» e pannelli solari sempre più performanti.

 

Ammesse complessità immani, il rapporto di Citi autorizza comunque un certo ottimismo vaticinando che entro il 2040 i costi di lancio, soprattutto grazie alla riutilizzabilità dei razzi vettore (vedasi quelli di SpaceX), potrebbero scendere dagli attuali 1.500 dollari al chilo a meno di 100 dollari e che i pannelli solari raggiungeranno una massa di un chilogrammo per kW, contro i 20 kg/kW di oggi: «Significherà che il trasporto di un impianto solare da 4 GW – il consumo annuale di una città come Milano – costerà un miliardo di dollari».

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Rimane anche da capire, ed è questo l’obbiettivo dell’Esa, se la volontà politica europea converga nel sostenere lo sviluppo (e il costo) di progetti tanto ambiziosi. L’importanza della decisione non è testimoniata solo dall’emergenza attuale, ma anche dai progetti già in corso altrove: ben più avanti dell’Europa sono la Nasa e il Regno Unito, che sta considerando l’investimento in un progetto da 16 miliardi di sterline e potrebbe portare il primo prototipo in orbita nel 2035. La capolista, però, è la Cina che, dopo aver testato un modello completo nel 2021, punta a portarlo in orbita bassa nel 2028 e, due anni dopo, a 36mila chilometri dalla Terra.

 

Proprio là dove, un giorno, potrebbero galleggiare Cassiopeia e Sps-Alpha.