La premier ha dovuto lasciare dopo le polemiche per la manovra che riduceva le tasse ai ricchi e la successiva retromarcia. Un caso che dimostra come anche chi è fuori dall’euro e dall’Ue deve rispettare le regole. Non una buona notizia per i sovranisti di casa nostra

Come nella più sapiente delle sceneggiature, a mettere la parola fine sui sogni di Salvini con le sue riforme della Fornero e di Berlusconi con la flat tax, tutte misure che comporterebbero un buco di bilancio di decine di miliardi - da compensare con disinvolti “sforamenti” e con nuovo debito come se non ne avessimo abbastanza - è arrivata la parabola britannica. La quale insegna che non è proprio il momento - fra guerra, inflazione, calo della crescita - di scherzare con i bilanci pubblici. E questo in qualsiasi Paese: nell’ipergloriosa Gran Bretagna né a maggior ragione nell’iperindebitata Italia.

 

Lo psicodramma a Londra è iniziato il 23 settembre. Quel giorno, il 17° dal suo insediamento al n.10 di Downing Street, la premier Liz Truss, che aveva preso il posto di Boris Johnson travolto da una crisi di impopolarità, ha varato il “mini-budget”: un assaggio di finanziaria in attesa della legge definitiva in calendario per il 31 ottobre. Nel provvedimento, per spingere la crescita, la “lady di latta” come è stata ribattezzata irridendo il suo piglio autodichiaratamente thatcheriano, ha inserito una serie di sgravi fiscali a beneficio sia delle aziende (la cui tassa sarebbe scesa dal 25 al 19%) che delle persone fisiche, con i maggiori vantaggi per i contribuenti più ricchi visto che era prevista l’abolizione del top rate al 45%. I redditi da 150mila sterline in su sarebbero rientrati nello scaglione del 40%.

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Doveva essere, secondo gli economisti di Tufton Street, la via dove sono concentrati i centri studi più conservatori della City, una letterale applicazione della “trickle-down economy”, la teoria neoliberista di Milton Friedman degli anni ’70: facendo pagare meno tasse ai ricchi si incentiva lo sviluppo che poi “sgocciola” verso le classi più basse. Macché: il buco per le finanze pubbliche superava i 45 miliardi di sterline, quasi 60 miliardi di euro. «È stata la mossa sbagliata nel momento sbagliato», spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. «In tempi normali una manovra del genere sarebbe stata accolta con gioia o quantomeno con interesse, ma in tutto il mondo i bilanci pubblici sono sotto pressione per l’inflazione. Aggravare i conti statali in modo massiccio è stato da irresponsabili. Senza contare che si è andati in rotta di collisione con la Bank of England, che come tutte le banche centrali sta alzando i tassi per restringere la massa monetaria anziché ampliarla per contenere l’inflazione, che in Uk supera il 10%». Un diluvio di vendite sui mercati internazionali ha travolto sia la sterlina che ha accentuato la discesa contro il dollaro (la perdita sulla valuta Usa è oggi del 24% dall’inizio dell’anno), sia i titoli di Stato, i famosi “gilt”: quello a trent’anni ha superato il 5% di interesse, il decennale è arrivato al 4,5% come quello italiano, suprema onta per i sovranisti della City. Una circostanza che non è sfuggita alla stampa: «Siamo diventati come l’Italia», ha scritto il Telegraph. Più esplicito il Guardian: «Liz Truss offre una lezione gratis alla Meloni su cosa non fare». E l’opinione pubblica britannica si trova a convivere con una instabilità di governo cui non è abituata.

 

Le conseguenze sono state pesanti specie per i fondi pensione, sensibili al ribasso di valore dei gilt in cui sono investiti (simmetrico al rialzo dei tassi), che hanno dovuto ingaggiare un costoso rifinanziamento vista la svalutazione del portafoglio. Ad arginare la bufera è intervenuta la Bank of England, che ha messo sul tavolo un “quantitative easing” d’emergenza per 65 miliardi di “gilt” valido due settimane. Il tempo è scaduto venerdì 15 ottobre, e tutti si preparavano al “botto” il lunedì successivo. Ma domenica 17, dopo aver licenziato il Cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze) Kwasi Kwarteng, la Truss ha annunciato che cancellava il “mini-budget”. E si è pure scusata. Ma non è stato abbastanza: il 20 ottobre ha annunciato le sue dimissioni dopo appena 45 giorni a Downing Street.

 

Le borse di tutto il mondo hanno ripreso fiato, la sterlina ha riguadagnato qualche punto, e gli interessi sui buoni del Tesoro sono ridiscesi pur restando ben sopra del “pre mini-budget”. Rimane la volatilità: lo spread sui titoli tedeschi è un umiliante 150 punti. La banca centrale, per ulteriore accortezza, ha sospeso il “tightening”, cioè l’irrigidimento monetario, non rivendendo più come programmato i buoni del Tesoro che deteneva dai tempi del primo quantitative easing.

 

La tempesta è tutt’altro che passata. «Il danno d’immagine che ha subito il governo Tory è forse irrecuperabile», commenta Gabriele Foà, manager di Algebris. «Ha destato sconcerto non solo la manovra in sé, del tutto inopportuna in questa fase, ma che si sia ignorato l’abituale coordinamento con la Bank of England e perfino con l’Office for Budget Responsibility che “bollina” operazioni del genere. Ora è iniziato un cammino in salita verso il 31 ottobre, quando dovrà essere presentato il budget finale, che sarà tutto in salita». Sarà un momento importante anche perché allora dovrà essere chiarita un’altra incognita, quella che interessa di più ai cittadini: «Il governo in aprile si è impegnato a ristorare famiglie e imprese dal caro-energia per un totale di 60 miliardi di sterline l’anno per due anni», spiega Francesco Castelli, responsabile del reddito fisso di Banor con base a Londra. «Ora, vista la situazione che si è creata tutto è tornato in discussione. Il nuovo Cancelliere, Jeremy Hunt, ha annunciato che si andrà avanti fino alla scadenza del primo anno, poi si vedrà».

 

Ma com’è stata possibile tanta incoscienza del governo di sua maestà? La risposta, secondo Carlo Manzato, responsabile dell’advisory di Credit Suisse, va cercata nelle ombre lunghe della Brexit: «È come se, svincolata da ogni rapporto con qualsiasi istituzione multilaterale, la Gran Bretagna si sia sentita libera e sufficientemente forte da intraprendere qualsiasi azione, anche la più rischiosa, senza dover rendere conto a nessuno. Ma ha fatto i conti senza i mercati».

 

Oggi la scelta è la lotta all’inflazione, a costo di una recessione che si spera leggera. L’aumento dei tassi sui mutui e i prezzi impazziti dell’energia hanno provocato ovunque il calo della fiducia dei consumatori. Ma c’è dell’altro, come dice Esther Baroudy, senior portfolio manager di State Street Global Advisors: «Il Regno Unito ha un deficit delle partite correnti tale da essere un importante debitore netto per l'estero. La sterlina, senza dubbio sempre meno valuta di riserva globale, risente dell'incertezza politica». Insomma, malgrado il Commonwealth, l’impero è finito. Anche i più coriacei nostalgici se ne stanno rendendo conto.